FESTIVAL DI DRO 2012- “WE FOLK A FIES “

Non lasciamoci ingannare dal titolo.” We folk” è un festival raffinato, di nicchia, certamente aperto a tutti, ma chi arriva non lo fa in modo casuale: bisogna seguire un percorso che ha delle regole, parcheggiare l’auto a Dro- Trento ( con il duplice obiettivo ecologico e organizzativo) e prendere la navetta che arriva a Fies, tre chilometri di distanza.

A questo proposito parliamo pure di una organizzazione impeccabile. Saranno la possibilità di utilizzo di spazi esistenti, saranno le risorse economiche disponibili per il finanziamento del progetto, sarà anche il numero gestibile degli spettatori- qualche centinaio-, sarà l’esperienza maturata nel tempo, ma tutto risulta studiato nel dettaglio: dai parcheggi gratuiti di facile accessibilità a Dro, alla navetta gratuita che passa ogni 15 minuti, funzionante per tutto il periodo di spettacoli e che dalla piazza principale del paese porta a destinazione e viceversa, dal cartello con tutte le informazioni e i contatti necessari del festival posizionato in piazza di Dro, alla puntualità, professionalità e cortesia dello staff organizzativo, dalla dirigenza fino agli economici e comodi punti ristoro situati nel parco, non ultima l’organizzazione della vendita dei biglietti, articolata per orari, prenotazioni e liste d’attesa.

Peccato per noi, a caccia del teatro di ricerca, che il Festival in questione non sia propriamente un festival teatrale, almeno a noi così non appaia.

Dal maggio 2011 la Centrale Fies fa parte di APAP- Advance Performing Arts Project, un network europeo volto al supporto e allo sviluppo delle performing arts contemporanee, come partner del suo nuovo progetto Performing Europe.

Citando la presentazione scritta sul programma:

Performing Europe (2011-2016) è un programma europeo interdisciplinare che comprende i settori della produzione, della presentazione e della distribuzione di opere artistiche, il cui obiettivo finale è il sostegno a progetti artistici che prestano particolare attenzione alle nuove modalità di intermediazione tra teatro, danza, performance, arti visive, design, media e cinema.”

Una volta in possesso del programma infatti mi dicono che sono solo due gli spettacoli inequivocabilmente teatrali: “La semplicità ingannata/ satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donne”, uno studio di e con Marta Cuscunà, in scena il 22 luglio 2012 e “ Sangue sul collo del gatto” dell‘Accademia degli Artefatti, il 23 e 24 luglio 2012.

Poi mi lascio guidare verso il resto un po’ dal caso e un po’ dai preziosi suggerimenti di Virginia Sommadossi, dello staff ideativo organizzativo, cui rivolgo una breve intervista:

Esiste un filo conduttore del festival e perchè We folk?

Ogni anno facciamo in modo che gli eventi che proponiamo abbiano un filo conduttore diverso. Li scegliamo dopo averli visionati direttamente e quest’anno abbiamo puntato l’attenzione sull’estetica e il design. Bisogna dire che capitano anche coincidenze quasi impreviste all’interno del festival, tematiche comuni che vengono affrontate da gruppi di diversa provenienza, come quello dei cow boy quest’anno, a testimonianza che questa è una panoramica delle tendenze contemporanee. Per questa ragione il titolo è We folk ( noi gente). Non a caso il nostro pubblico è formato da designer, artisti, architetti, professionisti, interessati a vedere quale è l’orientamento di tendenza e che vengono a prendere spunti interessanti per il proprio lavoro.

Una volta il Festival di Dro era un festival di teatro e di danza. Come mai questa sua tradizione si è trasformata nel tempo in questa direzione “performativa”?

In realtà il Festival di Dro è nato come festival di teatro di ricerca. Ora la ricerca nel teatro si è spostata in questa direzione, quindi il nostro festival è in continuità con la nostra tradizione.

Quindi, secondo te, la crisi del teatro di ricerca di oggi, quello che aveva gettato le basi negli anni ’70 e l’avvento delle performance sono collegate? O si può dire che seguano due linee indipendenti?

Io penso che oggi sia questo il teatro di ricerca, che questo sia lo sviluppo di quello che era il teatro di ricerca. Il teatro di ricerca cui tu ti riferisci non è più di ricerca, si è stabilizzato, istituzionalizzato, tant’è vero che i personaggi di allora ora sono inseriti nei circuiti tradizionali. Nel festival non lo chiamiamo teatro, per non deludere le aspettative del pubblico, che si aspetta di vedere altro tipo di teatro, ma coloro che agiscono gli eventi, gli artisti, lo chiamano teatro.

Sono comunque presenti due spettacoli teatrali “tradizionali”, diciamo. Perchè?

Perchè riteniamo questi, due allestimenti validi, così come gli altri eventi, ma anche perchè abbiamo sei progetti teatrali, under 30, che siamo orgogliosi di potere finanziare, come Festival e uno dei due spettacoli teatrali proposti, “ La semplicità ingannata”, è uno di questi.

Secondo te il pubblico degli spettacoli teatrali è diverso o è lo stesso di quello degli altri eventi performativi?

Sto anche io osservando e cercando di dare una risposta. Di certo qui il pubblico è trasversale ed eterogeneo. Accanto ai giovani ci sono meno giovani e mi accorgo che ci sono sia quelli che vengono con le idee chiare e selezionano gli eventi da visionare, sia quelli che vengono qui una giornata intera e vedono tutto quello che c’è in quel giorno.

ALCUNI TRA GLI SPETTACOLI

COWBOYS

Nonostante l’affabilità dell’interlocutrice appena intervistata e le sue motivazioni c’è qualcosa che non mi convince. Mi chiedo se davvero sia questo il nuovo teatro di ricerca e mi infilo a vedere una performance di 18 minuti: “Cowboys”, creazione del 2009 di Alessandro Sciarroni, in visione alle ore 20 e alle ore 23 il 23luglio 2012 alla Centrale Fies-Festival.

La presentazione cita: “E’ un lavoro sul colore e sull’identità superficiale. Si potrebbe riassumere con la frase: rendiamo grazie alla contemporaneità che ci ha permesso di restare sulla superficie delle cose.

La performance è divisa in due parti . Nella prima parte un ragazzo e una ragazza agiscono con uno specchio che posizionano al posto del viso, creando effetti curiosi. L’identità degli interpreti si perde, mentre lo specchio gioca con le parti del loro corpo, gli spettatori e il pavimento. L’effetto che ne risulta è sorprendente e piacevole. Nella seconda parte i due ragazzi indossano cinturone, stivali e cappello e ballano una semplice coreografia country dance line.

Confesso che, se non ci fosse la spiegazione, farei fatica a collegare le due azioni sceniche come facenti parte dello stesso evento.

A fine performance vedo la stessa perplessità disegnata su qualche spettatore che riconosco essere stato presente e plaudente allo spettacolo teatrale “Sangue sul collo del gatto” dell’Accademia degli Artefatti.

LA SEMPLICITA’ INGANNATA

Uno studio-ma non fosse per la brevità e una conclusione sospesa che rimanda a qualcosa d’altro- incalzante e convincente anche come spettacolo in sè, l’allestimento di “La semplicità ingannata- Satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donne” , premiato dal lungo applauso del pubblico.

Un applauso meritato ,bisogna renderne merito, che va alla preparazione dell’attrice, al disegno luci di Claudio “Poldo” Parrino, al disegno del suono di Alessandro Sdrigotti, alla progettazione di oggetti e pupazzi di Belinda De Vito, ai costumi di Antonella Guglielmi e all’assistenza alla regia di Marco Rogante.

Lo spettacolo, andato in scena alla Centrale Fies- Festival il 22 luglio 2012, di e con Marta Cuscunà, giovane attrice che non ha perso mai la concentrazione e la tensione necessarie nell’arco dei quaranta minuti, indaga la condizione femminile nel 1500, quando l’unico destino possibile per una donna era quello di diventare sposa.

Il filo conduttore dello spettacolo è il tema delle Resistenze femminili nel nostro paese.

I pretendenti venivano incoraggiati dalle doti, proporzionali all’appetibilità della donna di turno,che ne prendevano in considerazione età , caratteristiche morali, fisiche e soprattutto di carattere: una sorta di asta in cui le donne venivano messe in vendita al miglior offerente. Quando la famiglia non poteva garantire una dote sufficiente, o la donna non aveva i requisiti necessari, non restava che la strada del convento: diventare spose di Cristo. Eppure,in questo spettacolo liberamente ispirato a “Lo spazio del silenzio” di Giovanna Paolin (Ed. Biblioteca dell’Immagine, 1998), sarà proprio il convento, con opportunità inizialmente impensabili per compensare scelte forzate, a riscattare la libera scelta individuale, fino ad arrivare alla consapevolezza di una possibilità di ribellione alle regole imposte.

Il lungo monologo iniziale dell’attrice è in finale controbilanciato dall’utilizzo delle bellissime ed espressive pupazze/ suore animate nel movimento e nella voce con maestria da Marta Cuscunà, vero punto di forza dello spettacolo.

Marta Cuscunà, già attrice in “Merma Neverdies”, spettacolo con pupazzi di Joan Mirò e Zoè e “Inocencia Criminal”, diretti da Joan Baixas del Teatro de la Claca di Barcellona, ha vinto nel 2009 il Premio Scenario per Ustica con “ E’ bello vivere liberi! Progetto di teatro civile per un’attrice, 5 burattini e un pupazzo.”

Dal 2009 fa parte di Fies Factory, un progetto di Centrale Fies.

THE HOST

Se l’idea di partenza di questa performance, venata d’ironia, è il desiderio di conquista di un territorio che si ribella al suo controllo, così come la capacità dell’individuo di reale incisività nel proprio ambiente –come cita la presentazione-, di certo “The host”, con i suoi tre attori in scena vestiti da cow boys, Andros Zins-Browne, Jaime Llopis, Sidney Leoni, ci ricorda i rodei americani e la difficoltà di “domare” un cavallo.

La performance è in scena alla Centrale Fies- Festival il 24 e il 25 luglio 2012 e dura 45 minuti.

La scena, all’inizio solitaria e buia, un po’ alla volta acquista volume con accompagnamento musicale.

Decine di materassi e cuscini gonfiabili, coperti da un telo che li rende informi, vengono cavalcati da i tre performers in una difficile e quasi impossibile ricerca di dominio.

Sembra che i tre cow boys infine abbiano la meglio: i cuscini vengono sgonfiati, piegati e fatti sparire dalla scena in un desiderio di “normalità”, se non fosse che improvvisamente l’intera scena si solleva da terra, diventando un gigantesco piano inclinato in movimento.

I tre performers sono costretti ad un perenne disequilibrio e ad una costante lotta per rimanere in piedi.

Il punto di forza di questa performance è senz’altro l’idea, capace di rendere il senso di un confronto impari tra individuo e territorio, con un’immagine di grande forza comunicativa; il limite è quello di non avere sviluppato ed approfondito il tema.

Lo spettacolo di forte e immediato impatto, realizzato con il light design di Nick Simons e il sound design di Peter Lenaerts è stato ideato da Andros Zins- Browne.

Nel 2010, ha vinto il Goethe Institute Prize All’Impulse Festival a Dusseldorf (Germania).

SANGUE SUL COLLO DEL GATTO

E’ andato in scena il 23 e il 24 luglio 2012, all’interno del Festival Centrale Fies, lo spettacolo teatrale“Sangue sul collo del gatto”, una produzione dell’Accademia degli Artefatti in collaborazione con il teatro di Roma, che ripropone il testo di Rainer Werner Fassbinder, per la traduzione di Roberto Menin e l’ottima regia di Fabrizio Arcuri.

Una decina di personaggi raccontano e agiscono la propria storia, nelle sue pieghe più private, sfilando in vetrina lungo la strada e svelando vizi e contraddizioni.

Ne viene fuori un affresco grottesco e coraggioso, quasi felliniano, dalle tinte forti ma ammorbidite da una consapevolezza smaliziata, un non prendersi troppo sul serio, nonostante un mettersi a nudo in scena, anche coraggiosamente fisico.

Gli ingredienti di una normalità border line è evidente: dalle trasgressioni sessuali alle manie di protagonismo, dalle debolezze personali che determinano le scelte di vita, all’incapacità di provare reali emozioni. Le situazioni agite diventano spassose, svuotate della propria intrinseca drammaticità, perchè viste attraverso gli occhi di un alieno, venuto sulla terra per comprendere il linguaggio degli uomini.

Gli occhi dell’alieno rappresentano anche lo sguardo esterno, curioso e stupito, di tanta incongruenza. L’idea di comunità umana e sociale viene messa in crisi in continuazione da rapporti che si fanno e disfanno, in un’atmosfera di precarietà esistenziale e di mutevolezza di certezze.

La visione d’insieme viene restituita dall’alieno in finale, in un elenco di frasi imparate dagli stessi personaggi, nelle quali i protagonisti non si riconoscono, ma che denunciano la falsità del loro linguaggio e della loro realtà.

Lo spettacolo è ottimamente interpretato da Miriam Abutori, Michele Andrei, Matteo Angius, Gabriele Benedetti, Fabrizio Croci, Emiliano Duncan Barbieri, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza, Fiammetta Olivieri, Sandra Soncini, con le luci di Diego Labonia, l’efficace scenografia di Andrea Simonetti e i costumi di Marta Montevecchi.

Ne consigliamo la visione, anche per la suggestiva messa in scena, ricca di risvolti umoristici e di colori interpretativi, in un continuo intersecarsi, quasi accidentale , di percorsi individuali, in cui possiamo riconoscere le storie e la vita del nostro tempo.

L.I.LINGUA IMPERI.VIOLENTA LA FORZA CHE LA AMMUTOLIVA

L.I. Lingua Imperi”, spettacolo di contenuto e di forte impatto drammatico, è andato in scena alla Centrale Fies- Festival il 26 e il 27 luglio 2012.

Produzione di Anagoor, e parte del progetto Fies Factory, lo spettacolo ha da subito il sapore del documento/testimonianza, realizzato ad altissimo livello tecnico e apprezzabile per l’originalità delle idee, l’attenzione e la cura della messa in scena.

Viene introdotto dal filmato del dialogo tra due comandanti tedeschi, due primi piani in schermi indipendenti.

Siamo nel 1942 e si pone il problema della scelta, tra le numerose popolazioni russe, diverse tra loro per costumi, territorio e linguaggio, di quali eliminare secondo le leggi razziali fasciste.

Le posizioni dei due tedeschi sull’argomento sono diverse. Uno, appassionato ricercatore delle somiglianze e delle differenze tra i linguaggi, nega la scientificità di un’esistenza di “razza”, rivendicando che ciò che i tedeschi attribuiscono alla genetica in realtà è frutto di fattori ambientali:

lingua, territorio, usi e costumi; l’altro, pressato dalle richieste dei gerarchi fascisti, vorrebbe avere nomi e certezze. L’emblematica conversazione, che nel corso dello spettacolo viene ripresa fino ad arrivare ad uno scontro dialettico, introduce implicitamente al valore dell’autodeterminazione dei popoli e al valore delle differenze. Esplicitamente ne denuncia il massacro perpetrato dalla tirannia.

Lo sguardo si sposta ad altre vicende storiche, altri massacri più lontani nel tempo e più recenti, a raccontare il dolore muto delle madri e delle figlie, un dolore violento interiore ed inespresso.

Lo spettacolo, curato nel dettaglio per l’ottima regia di Simone Derai, che firma anche la drammaturgia con Patrizia Vercesi, è il risultato di un’approfondita preparazione di tutti gli attori, che hanno curato anche la parte musicale, interpretativa, vocale e corporea: Anna Bragagnolo, Mattia Beraldo, Moreno Callegari, Marco Crosato, Paola Dallan, Marco Menegoni, Gatyanee Movisisyan, Eliza Oanca, Monica Tonietto ,e ha saputo raggiungere il pubblico con intensità emotiva.

Vale la pena citare la traduzione e consulenza linguistica di Filippo Tassetto, le voci fuori campo di Silvija Stipanov, Marta Cerovecki, Gayanee Movsisyan, Yasha Young, Laurence Heintz, i costumi di Serena Bussolaro, i video di Moreno Callegari, Simone Derai e Marco Menegoni.

Ne è risultato un lavoro che ha avuto l’altissimo pregio non solo di celebrare la memoria, di tenere in considerazione la storia e i suoi insegnamenti, in un clima contemporaneo in cui solo il presente e l’immediatezza sembrano avere valore, ma anche di denunciare il clima di indifferenza collettiva rispetto alla barbarie sui popoli, a prescindere dalla conoscenza dei fatti, che abbraccia quanti, pur sapendo, non prendono posizione e rimangono a guardare perchè non direttamente coinvolti.

IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI

La performance “Il giro del mondo in 80 giorni”, prodotto da MK, se non altro per la sua durata di 55 minuti, si avvicina allo spettacolo e al mondo della danza/teatro, non fosse che gli interpreti Philippe Barbut, Biagio Caravano, Haithem Dhifallah, Laura Scarpini, David Kern e Roberta Mosca,con la coreografia di Michele Di Stefano, non sembrano né attori né ballerini, non tutti almeno, e che, degli spettacoli di teatro/danza più classici, non hanno la cura della scena, del gesto e del dettaglio.

Il pubblico numeroso non è giovanissimo e, terminato lo spettacolo, abbastanza deluso. Pochi applaudono, terminata la performance in scena alla Centrale Fies- Festival in data 25 luglio 2012, alcuni però con convinzione. In sostanza il pubblico pare diviso, ma la maggioranza è tiepida.

Per buona parte del tempo della sua durata un bambino si copre le orecchie per la presenza di un voluto suono acuto metallico e fastidiosissimo, alle musiche Lorenzo Bianchi, alle emissioni sonore Lorenzo Bazzocchi, mentre il disegno luci di Roberto Cafaggini si unisce a tratti ai vapori e al fumo della scena.

Lo spettacolo, dice la locandina, si richiama al “romanzo di Jules Verne, con la sua imperturbabile circumnavigazione del globo in mezzo ad imprevisti di ogni tipo… un luogo oggi schiacciato tra lo spazio inevaso del turista contemporaneo e quello esclusivo del capitale globale”.

E’ perlopiù agito con il corpo da diversi danzatori/attori che invadono la scena, disseminata di oggetti, citazioni dei luoghi attraversati: bandiere, mazze da golf con palline o elementi di vestiario. Gli interpreti la percorrono secondo traiettorie e modalità legate ai climi, con, sempre da citazione della presentazione, una “coreografia informata da una condizione atmosferica del corpo”.

Mi sembrano interessanti alcune coreografie che “giocano” sul filo del potere e della prevaricazione/ sottomissione turista/ habitat, ma molte altre appaiono confuse nella esecuzione, o meno chiare nelle intenzioni, con qualche buona intuizione. Soprattutto nell’insieme lo spettacolo non sembra arrivare al cuore dello spettatore, senza quel passaggio fondamentale dalla descrizione all’energia, capace di rendere viva un’azione scenica.

Terminato lo spettacolo chiedo a due ragazze, che trovo sedute nel parco della Centrale Fies a guardare in un maxi schermo la selezione di immagini degli spettacoli già visti, se posso fare loro una breve intervista.

Vi è piaciuto lo spettacolo “Il giro del mondo in 80 giorni”?

Ad essere sincere ci aspettavamo qualcosa di più. Secondo noi è mancata l’energia. L’abbiamo trovata un po’ piatto, senza che succedesse davvero qualcosa… che mancasse una poetica. A tratti ci sembrava anche improvvisato. Ma noi siamo anche un pubblico abituato a guardare e sappiamo cosa guardare in uno spettacolo.

Che tipo di spettatrici siete? Appassionate, o del settore?

Siamo due attrici.

Mi hanno detto che questo genere di spettacolo performativo è il nuovo teatro di ricerca. Siete d’accordo con questa affermazione?

Senza dubbio è vera. E’ un tipo di ricerca che risente del contesto in cui viviamo. Non sempre dà risultati ottimali o soddisfacenti. Ci sono cose migliori e altre no, ma proprio perchè ci si muove in un ambito di ricerca.

Ma è piuttosto diverso da quello iniziato negli anni 70 che prevedeva lunghi training per gli attori ed una accurata preparazione del corpo e degli spettacoli, non credete?

Non dobbiamo dimenticare che oggi i soldi non ci sono per questo. Gli attori non se lo possono più permettere.

Voi ora cosa state facendo come attrici? Lavorate in qualche compagnia?

Anche, quando capita, ma non abbiamo una nostra compagnia. E’ un momento difficile e cerchiamo di autoprodurci ora. Stiamo lavorando insieme al progetto di un video che parla di donne, che ha girato una di noi due e speriamo bene.

In bocca al lupo per la vostra produzione.

PERFORMANCE E TEATRO DI RICERCA: SPUNTI PER UN DIBATTITO

C’è chi dice che il nuovo teatro di ricerca si chiami “performance”, unica categoria oggi a porsi in modo nuovo di fronte ad un pubblico. C’è addirittura chi sostiene che solo la performance possa definirsi “teatro” perchè ha bisogno di un pubblico cui riferirsi, cosa che nel teatro avviene solo nello spettacolo finale ( le prove non lo prevedono). C’è chi dice che “performance” e “ teatro di ricerca” siano due espressioni diverse artistiche, ciascuna con una propria specificità: la performance si avvale di plurilinguaggi, è multimediale, nasce e muore nel momento stesso in cui esiste, è azione scenica di fronte ad un pubblico; il teatro si rifà ad un testo, ad un linguaggio drammaturgico, ad una messa in scena. C’è chi dice che il teatro di ricerca, secondo la definizione del “teatro povero”, da Eugenio Barba in poi, oggi sia morto, che non ci siano più né tempi né spazi per agirlo, né contesto cultural- sociale, che abbia già fatto il proprio corso e alla fine si sia istituzionalizzato. C’è chi dice che non esista un “teatro di ricerca” come categoria, ma che la ricerca nel teatro vada cercata trasversalmente, nei diversi linguaggi teatrali.

Forse, per tutti questi diversi mondi di pensiero, nel Festival di Dro, quando ho chiesto quali fossero gli spettacoli “teatrali” e quali le performance, mi hanno indicato a voce i titoli ( solo due ma in realtà erano tre), perchè da programma nulla pareva indicare l’appartenenza ad una od altra categoria. Nemmeno la durata era indicativa dell’appartenenza.

Dopo avere visto in questo Festival alcuni spettacoli “teatrali” e alcuni performativi posso ipotizzare che le differenze che balzano agli occhi sono: la preparazione degli attori ( non necessaria nei performer) e un’analisi temporale drammaturgica, ma anche più spesso una semplice analisi ( necessaria nel teatro non nella performance). Sono entrambe due categorie che richiamano la dimensione tempo/ memoria, tanto l’allenamento fisico o vocale dell’attore, quanto uno svolgimento temporale drammaturgico.

La cosa dà da pensare, in un momento in cui l’oggi è predominante rispetto a tutto.

Viene il sospetto che la “performance” diventi una specie di scorciatoia, in cui non sono necessari particolari studi ma basti l’idea innovativa ,che collegata ad una energia, della cui natura nulla si sa se non che si sprigiona implicitamente dall’azione scenica, assicurano un risultato certo. Insomma si azzerano tutti quei processi che nel tempo, attraverso il training dell’attore, il suo allenamento quotidiano, rendevano l’energia il più potente strumento dell’attore, la garanzia della sua presenza scenica e della sua capacità di arrivare al pubblico in veste fortemente comunicativa.

Viene da domandarsi allora quanto tempo inutile abbia perso il teatro di ricerca di qualche decennio fa, se l’energia si sprigiona naturalmente dalla semplice azione scenica.

Inoltre spesso le performance pur apparendo come punti luminosi, condensati di energia pronti ad esplodere, altrettanto spesso, come le meteore, hanno vita breve.

Ci sembra insomma che le produzioni performative siano i prodotti, seppur creativi, del nostro tempo, più tesi al risultato che al processo.

E’ anche vero che oggi l’attenzione dei giovani e la concentrazione che ne consegue, è minima rispetto ad un tempo, incapace di convogliare le energie sufficienti per lavori di lunga durata e complessa struttura.

Sembra quindi più facile fruire di prodotti relativamente semplici, come le performance, capaci di catalizzare l’attenzione dello spettatore, proiettandolo in una dimensione di percezione inconscio/emotiva, che non ha sempre il sostegno della ragione o della rielaborazione critica.

Questo ultimo aspetto ci induce a pensare, soprattutto in considerazione di un pubblico meno legato al mondo dell’arte e alle sue motivazioni e più strettamente intrecciato con il mondo del commercio e dell’appetibilità dei prodotti, che qualcuno con grossi interessi di mercato potrebbe per fini economici introdursi negli ambiti di ideazione creativa e monopolizzarne idee e contenuti, cosa che già peraltro avviene nella pubblicità, con la differenza però di contrabbandare per arte, ciò che è invece direttamente funzionale in un contesto commerciale pubblicitario.

Emanuela Dal Pozzo

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