Avevamo anticipato in un numero precedente che ci saremmo occupati ancora di Renato Begnoni, noto fotografo veronese, con ulteriori approfondimenti.
Lo facciamo ora, in occasione della sua ultima opera, di forte impatto emotivo e allusiva di inquietanti scenari attuali, riproponendo un’intervista all’artista fatta da Enrico Prada e pubblicata il 16 settembre 2013 nel blog “Compagnia dei fotografi”, dal titolo: “Comunicare per immagini. Dialoghi e ricerche a cura di Enrico Prada.”
Dice Enrico Prada, autore dell’articolo:
“ Ho conosciuto Renato Begnoni verso la fine degli anni Novanta, per una sua mostra a Pavia. Le sue immagini mi colpiscono e nel Duemila , per una mostra collettiva sulle violenze, alla Triennale di Milano, gli chiedo di illustrare la violenza del dolore. Dopo di che, come accade nella vita, ci siamo persi di vista. Ho comunque seguito da lontano il suo lavoro e, negli anni, le sue opere si sono fatte via via più ricche, più dense. Oggi sono felice che abbia voluto raccontarmi la sua storia e il suo incontro con la fotografia o, come la definisce in modo poetico Renato, il suo incontro con la sua” primavera di luce.”
Quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad abbracciare la fotografia?
Ho iniziato ad amare l’arte fotografica fin da ragazzo. Mi emozionava poter raccontare per immagini quello che nasceva dentro di me, dialogare con me stesso, rimuovere questa mia timidezza. Poter fissare emozioni, progettare pensieri, vivere con questa magia contrastata dalla luce e dal buio. L’amore per l’arte in generale mi aveva suggerito che la fotografia poteva diventare una cosa importante per me. E così è stato: un linguaggio, uno strumento fondamentale per suggerire nuove visioni del contemporaneo e dialogare con l’esterno.
Quando e dove, se lo ricordi, è sucecsso che ti sei detto: “Io non posso essere altro che fotografo”?
Giovanissimo, avevo 16 anni. Dal mio paese natale, Villafranca di Verona, sono andato in treno a Milano a vedere le mostre di Irving Penn, Cartier Bresson e Diane Arbus. Sono rimasto letteralmente folgorato dalle fotografie, dalla loro bellezza, dalla vita raccontata in un’immagine. Ero “lontano” da questi personaggi, ma mi sentivo straordinariamente vicino e mi interrogavo ogni secondo su ciò che vedevo.
E’ stata una fascinazione emotiva, d’istinto, o era già un’attrazione intellettuale, estetica?
All’inizio ho cercato di studiare e segore grandi autori in cui l’aspetto formale era, in apparenza, un elemento preponderante: Fontana, Avedon, Mapplethorpe, Adams. Poi il mio interesse si è spostato su autori meno conosciuti, ma più complessi, enigmatici, intriganti: Gioli, Witkin, Weegee.
A quale incontro devi la tua passione iniziale?
Per questo fatale incontro parto sempre da lontano: frequentavoancora le scuole medie e mia madre mi aveva regalato una Rolleiflex 6×6. Non ti dico l’emozione! Mi tremavano le mani nel vederla e il cuore batteva a mille! Per alcuni anni ho tenuto lamacchina fotografica sul comodino in campagna e mi addormentavo guardando questo strumento come un amore impossibile. Poi, con i miei pochi risparmi, ho iniziato ad acquistare le prime riviste di fotografia: Processo Fotografico, Photo…. E i primi libri di fotografia: I testi di I.Zannier, J.C..Lemagny, A.Gilardi, R.Valtorta, S.Sontag e molti altri ancora. E devo molto alle mostre che ho visto; ai curatori; alla mia prima borsa di studio della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, vinta nel 1985; ai luoghi e alle persone che ho incontrato per strada. Un ricordo particolare a Giuliana Scimè per aver valorizzato, all’inizio della mia attività artistica, le mie fotografie (1985)
Hai avuto, nella tua genealogia fotografica personale, esempi di fotografi in casa, tra i parenti o gli amici, oppure sei entrato nel mondo della fotografia da solo, seguendo una strada tutta tua?
No, nessuno in famiglia fotografava. Anzi, ero considerato anomalo nell’ambiente familiare. Ero visto dai parenti e in paese come un diverso, un fannullone. Difficile vivere e raccontare a loro che stava nascendo dentro di me una primavera di luce.
Quali sono state le prime immagini che hai scattato? Le conservi ancora?
Certamente. Sono ritratti in bianco e nero di una famiglia di contadini: il marito che fuma il sigaro e la signora che si pettina al mattino, fuori nel cortile. Poi un campo nomadi e mio nipote Cristiano seduto su un mezzo agricolo (1972)
Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato per la prima volta il mondo attraverso un mirino?
Un gioco meraviglioso, un luna park, dove la curiosità nel vedere l’immagine all’interno del mirino mi accompagnava in un mondo tutto particolare, da scoprire giorno dopo giorno. Ero felice, come un bambino, di scoprire in ogni attimo una nuova finestra aperta al mondo.
Ti ricordi cosa hai provato quando hai guardato le prime immagini scattate da te? O cosa hai provato quando le hai viste affiorare in camera oscura?
Mi sembrava una scatola magica, un parto continuo di nuove creature venute alla luce. Sicuramente un momento particolare. Entravo in camera scura e mi isolavo dal mondo per intere giornate. Una maternità con la luce rossa.
Quando hai capito che la tua passione iniziale si era trasformata in una necessità, vale a dire: quando la fotografia non è più solo stata un desiderio ma è diventata un linguaggio?
Mi ritengo fortunato. L’unica cosa che ho capito da subito è stato vedere una fotografia nascere dentro di me, sentire un “autore”, interrogarmi ogni giorno perchè viviamo. Vedere con gli occhi gonfi di dolore e pieni di gioia. La ricchezza degli occhi che cercano di vedere oltre il “giardino fiorito”.
Quale è stata la tua formazione, il tuo percorso di crescita ( studi, maestri, immagini, esperienze) che ti hanno condotto dalle prime immagini al fotografo che sei oggi?
Ho iniziato a lavorare come apprendista nello studio fotografico FP di Verona, nel settore della pubblicità e del ritratto,poi design e architettura (1974).Molti sono gli autori che amo, F.Woodman, L.Ghirri, D.Arbus, M.Giacomelli, D.Michals, Man Ray, G.Guidi, N.Migliori…..
Che cosa hai scoperto grazie alla fotografia? Che cosa ti ha dato?
Mi ha dato la possibilità di raccontare emozioni, di suggerire un nuovo vedere, di aumentare il dubbio, il senso di libertà e di ascolto. Mi ha dato la possibilità di parlare di dolore, di fame, di amore, di amicizia. Il mio modo di portare solidarietà.
E adesso, dove ti sta portando la fotografia? Quali progetti per il futuro?
Poter occupare la mente in nuovi sogni da vivere con gli altri. Patecipare a temi come l’identità, la diversità, il nostro Io, la nascita e la morte; essere un termometro del nostro tempo. Creare nuove opereper un’esigenza quotidiana dove la certezza non esiste. Il futuro? Dopo la perdita di mia madre ho ripreso a lavorare e spero di poter realizzare una mostra significativa.
I tuoi lavori fotografici sono molto “pensati”. In che modo avviene il processo di trasformazione dell’idea in immagine?
Lavoroper un’immagine che deve interrogare, proiettare, segnare sempre nuove emozioni. Un’immagine che deve seguire un progetto di vita: la centralità dell’esistere, dove le cose, i luoghi e le persone tornano a essere protagoniste del nostro sentire. Fare strada, “lavorare molto”, con determinazione, umiltà, curiosità e amore. Perchè la luce, il vento, l’acqua e il fuoco ci aiutino a capire cosa dobbiamo fotografare. Lavoro per un’opera che racconti non solo quello che c’è stato, ma quello che ci può capitare: una non foto.
Emanuela Dal Pozzo