Incontro Giovanni Cilluffo a Giavera del Montello (TV) nella Villa Wassermann, il 16 febbraio 2014, dopo la messa in scena di uno degli spettacoli inseriti nella Rassegna “Asfalti teatrali – Linguaggi teatrali 2014”, dal titolo “Il Supermaschio”.
La locandina di presentazione della Rassegna cita: “Abbiamo pensato di realizzare un percorso, del fare teatro, immaginato come una grande strada, dove si incontrano grandi arterie, vicoli, vie, incroci, cortili. Ecco, così ci siamo immaginati: una moltitudine di linguaggi teatrali che si incontrano, si confrontano, e possono incontrare il gusto del pubblico. La caratteristica di questa rassegna è l’introduzione alla fine di ogni spettacolo dell’incontro con l’autore: un momento conviviale con il pubblico, per scambiarsi opinioni e pareri, sia sullo spettacolo che sul concetto di fare teatro oggi, il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino.”
La mia curiosità va alla Direzione Artistica della Rassegna, alla modalità di selezione degli spettacoli, che dovendo attingere ad una ricca e composita offerta di compagnie e produzioni, diversa per stili, linguaggi, poetiche e contenuti, deve necessariamente utilizzare dei filtri consapevoli.
Vorrei chiederti quali sono le linee guida che utilizzi nella scelta degli spettacoli da proporre in questa Rassegna, ma mi rendo contro che bisognerebbe fare un passo indietro, vista la tua lunga esperienza come Direttore Artistico. Credi che il tuo percorso si possa sintetizzare in momenti significativi?
Tra le diverse esperienze in continuità dagli anni ’80 ad oggi, escludendo quelle nelle quali il mio intervento si inseriva in progetti più ampi rispetto ai quali avevo una responsabilità più limitata, direi che sono due i momenti più significativi: la mia esperienza al Teatro Ossero di Treviso all’inizio e quella odierna a villa Wassermann. Ne parlo volentieri perchè mi permette di fare dei confronti di contesto sociale e artistico diverso. All’epoca, quando gestivo il Teatro Ossero, la mia principale preoccupazione era quella del confronto, con il pubblico e con gli artisti, della ricerca di un linguaggio comune, dell’individuazione di un comune denominatore in cui riconoscermi. Anche le mie produzioni, a livello artistico, erano molto più sperimentali, a volte aggressive e di rottura, alla ricerca di nuovi linguaggi. Non dimentichiamo che in quegli anni ’80 la tecnologia cominciava a fare il proprio ingresso nell’arte e il mondo artistico ne era attratto a volte al punto di sacrificare l’attore quale protagonista della scena.
Si, mi ricordo alcuni festival teatrali dell’epoca, come quello di Polverigi, che a differenza di quello storico di Sant’Arcangelo di Romagna, utilizzava in larga scala laser ed effetti speciali su attori/danzatori semplici corpi scenici.
C’è anche da dire però che queste nuove tecnologie entravano in un teatro di ricerca consolidato, in cui si avvertiva forte la presenza di maestri autorevoli, pensiamo al Living Theatre o a Lindsay Kemp per la danza, cosa che oggi non esiste più.
Intendi dire che oggi non ci sono più maestri?
Penso che oggi i giovani non abbiano più come noi dei validi e certi punti di riferimento per ciò che riguarda il teatro e la danza. Questo si ripercuote sulle nuove produzioni che spesso sono frutto di improvvisazioni. Come tutte le improvvisazioni possono riuscire più o meno bene, aiutate oggi dal saper padroneggiare una tecnica, che sia il computer o il video o qualsiasi altro sofisticato linguaggio, anni addietro impensabile. Parlo di queste differenze nel bene e nel male, senza un giudizio di valore.
E oggi invece qual’è la tua urgenza?
Se all’epoca del Teatro Ossero ero in cerca di un’identità artistica e linguistica, oggi siamo tutti cresciuti. Ciascuno ha trovato nel tempo la propria strada. Ci confrontiamo ancora, ci incontriamo naturalmente perchè ci riconosciamo, ma soprattutto la nostra tensione è quella di comunicare. Lo vedo nelle produzioni mie e di altri. L’attore è nuovamente al centro della scena, pur nell’aiuto delle tecnologie messe a sua disposizione. Per ciò che personalmente mi riguarda, se devo rintracciare un filo conduttore comune dall’inizio ad oggi direi che è l’attenzione al sociale. Il teatro per me ha una imprescindibile funzione sociale.
Cosa intendi con il termine “sociale”?
Il teatro dal mio punto di vista deve interrogarsi sul presente, indipendentemente da come lo fa, se in modo provocatorio o meno.
Con il termine “sociale” intendi anche riferirti a tutto quell’ambito teatrale che si rivolge all’handicap anche utilizzando in scena attori disabili?
Assolutamente no, anzi non condivido questo modo di porsi che si avvicina allo “sfruttamento” di persone non sempre in grado di decidere di se stessi, pur avendo io stesso fatto laboratori e messe in scene con disabili, che ritengo esperienze positive e da farsi, ma gli spettacoli sono un’altra cosa.
Quali qualità pensi debba avere uno spettacolo teatrale oltre a quella di interrogarsi sul presente?
La magia e la sacralità. Uno spettacolo deve portare lo spettatore fuori di se stesso. Se non riesce a fare questo come può riuscire ad indagare la realtà?