All’insegna dell’Opera buffa, presentata e scandagliata attraverso due lenti completamente differenti, si è aperta la Stagione 2013/2014 del Teatro Filarmonico di Verona impegnato a ristabilire quel filo conduttore con il suo pubblico che , nonostante una Stagione il più del volte migliore, per scelte artistiche e prettamente musicali, di quella areniana , sembra prevalentemente concentrarsi su quella privilegiandola, nonostante un’ impostazione che, ogni anno di più, sembra dimenticarsi e distaccarsi dalla sua nascita quale teatro di tradizione per sposarne una sempre più vicina al marketing, ma questo è un altro discorso.
Inaugurava la Stagione “Don Pasquale”, come si sa partitura in cui Donizetti declina il genere buffo in una caratterizzazione che, prendendo le distanze dai clichè della convenzione di genere, si apre ad una dimensione più umana e meno stereotipata. E proprio a ciò sembrava far riferimento l’interessante regia studiata da Antonio Albanese che, impostata come una pièce teatrale , spostava la vicenda da Roma ad un luogo imprecisato della vicina Valpolicella, mutando e rinfrescando i caratteri per funzioni, peraltro non chiaramente definite nel libretto, pur mantenendone i tratti tradizionali.
La bella scenografia creata da Leila Fteita ci immergeva da subito in una cantina definita da un’enorme parete di bottiglie trasparenti ordinatamente disposte che, già da sola, visualizzava perfettamente l’atmosfera voluta per poi spostare l’azione in un simbolico vigneto che perfettamente contribuiva a definire la dimensione spaziale e temporale voluta dal regista.
L’ottimo lavoro con gli interpreti ed il Coro ( usato finalmente e con esito davvero convincente come ‘altro’ interprete della pièce e volano di un diretto coinvolgimento del pubblico in sala) evidenziava inoltre e felicemente quell’intelligente ‘allure’ che avvolge la partitura donizettiana donandole notazioni dal sapore vagamente novecentesco. Così ogni personaggio viveva a tutto tondo in palcoscenico trasmettendo al pubblico grande armonia e coesione teatrale e coinvolgendolo senza l’uso di inutili ammiccamenti o giochetti scenici ma tramite la partitura ed un’attenta interpretazione del funzionale libretto di Giovanni Ruffini. Un bell’esempio di regia intelligente e meditata che, senza inutili clamori, comunicava con giusta efficacia espressiva il suo messaggio.
Ottimo il lavoro del cast in palcoscenico.
Simone Alaimo disegnava un Don Pasquale assai distante da quella caratterizzazione di maniera a cui una certa vecchia tradizione ci ha abituato, definendolo con tratti più marcatamente espressivi e contemporanei delineandone vocalmente, tramite un sapiente uso del fraseggio, il carattere più marcatamente teatrale.
Davvero una bella prova quella presentata dalla giovane Barbara Bargnesi nel ruolo di Norina che mostrava di saper cesellare. attraverso un’ intelligente uso della sua interessante vocalità (sorretta da giusta tecnica) il personaggio , delineandolo con quella giovanile e simpatica esuberanza ed egoistica sfrontatezza che lo caratterizza così come l’Ernesto di Edgardo Rocha che si confermava (dal mio personale punto di vista e nonostante un registro acuto che necessita di una cura costante per essere costantemente raccolto e tecnicamente sempre dominato) una delle timbriche tenorili lirico-leggere più interessanti del momento.
Corretto e professionale, ma ancora da sviluppare ulteriormente sotto il profilo vocale ed espressivo, il Dottor Malatesta di Mario Cassi.
Completava il cast Antonio Feltracco (Un notaro).
Non del tutto convincente la lettura del M° Omer Meir Welber alla guida dell’Orchestra dell’Arena di Verona che, non in sintonia con il buon lavoro fatto da regia e cantanti, sembrava seguire una sua linea del tutto personale impostando l’ orchestrazione su di una chiave alquanto monocorde nei ritmi a scapito di una densità del suono, che deve restare, nonostante le diverse dinamiche espressive, sempre nitido e brillante.
Ottima la prova del Coro della Fondazione diretta dal M°Armando Tasso
Di tutt’altro spessore invece l’esito de “L’italiana in Algeri”, partitura creata da un Rossini in stato di grazia che si gioca e completa in una chiave buffa mirabilmente teatrale e che risolve gli usati schemi del genere in un caleidoscopico gioco di colori orchestrali dove l’onomatopea diventa essa stessa personaggio e chiave di pirotecnica dinamica interpretativa .
La regia di Pier Luigi Pizzi , pur datata (data primi anni ’90 Opera di Montecarlo la prima) mantiene la sua freschezza e gioca con interpreti e coro in un girotondo fresco e vincente .
Non tutto ha invece funzionato in palcoscenico complice, in particolare, un’orchestrazione da parte del M° Francesco Lanzillotta poco incisiva e definita che abbandonava sostanzialmente a se stessi gli interpreti e le masse in palcoscenico e ciò , soprattutto in Rossini dove tutto è legato magicamente in partitura in un armonioso tutt’uno , è particolarmente determinante per la resa complessiva dello spettacolo.
Mirco Palazzi si confermava, ancora una volta, una delle vocalità rossiniana più interessanti del momento . Musicalmente preciso, egli mostrava grande dominio tecnico del suo strumento vocale ed un’attenzione al personaggio ed al sillabato preziosa quanto teatralmente efficace.
Marina de Liso non convinceva invece nel ruolo centrale di Isabella .
Dotata di una vocalità di non particolare rilevanza, la giovane artista si mostrava ancora non pronta tecnicamente ad affrontare il temibile ruolo rossiniano , le agilità risultavano troppo superficialmente risolte ed anche scenicamente il personaggio non trovava una sua definizione personale e convincente. Le qualità comunque non mancano e sicuramente ella avrà tempo e modo di approfondirle e limarle ulteriormente in questo ruolo .
Interessante per timbro e musicalità ma ancora troppo insicuro tecnicamente , il Lindoro di Daniele Zanfardino mentre poco incisivo e tendenzialmente monocorde risultava il Taddeo di Filippo Fontana che mostrava però una giusta attenzione al sillabato ed alla caratterizzazione del personaggio. Sostanzialmente bene l’Haly tratteggiato da Federico Longhi perfettamente in parte e sempre efficacemente ben dialogante in palcoscenico .
Completavano il cast Alida Berti (Elvira) ed Alessia Nadin (Zulma).
Come già accennato in apertura, non bene l’orchestrazione del M° Francesco Lanzillota che dava una stanca lettura della partitura privandola di quel brio e di quella trascinante energia che la caratterizza fortemente .
Il buon successo di pubblico sembrava evidenziare un avvicinamento del pubblico al suo teatro che speriamo, recita per recita, possa continuare a crescere e coinvolgere, date le buone offerte che il teatro rivolge a giovani e famiglie, anche le nuove leve .
Verona, 19/12/2013 – 06/02/2014
SILVIA CAMPANA