Erano ventidue anni che la donizettiana “Maria Stuarda” mancava dal Teatro Filarmonico di Verona e bene ha fatto il direttore artistico Paolo Gavazzeni a riproporla finalmente al pubblico quale intelligente alternativa ad un programma più popolare e conosciuto, in un allestimento poi (nato per il Bergamo Music Festival Gaetano Donizetti) in cui l’intelligenza dell’allestimento scenico, la raffinatezza dell’orchestrazione e la regalità (è il caso di dirlo ) delle due protagonista hanno concorso nel creare uno spettacolo per certi aspetti tanto unico quanto emozionante.
Certamente l’opera, fin dal suo debutto (Teatro alla Scala 30 dicembre 1835) non ha avuto vita semplice e solo negli anni ’50 (1958, Bergamo) e ’60 (1967, storica edizione del Maggio Musicale Fiorentino) è stata riportata in vita dalla “Donizetti Renaissance”, grazie ad un attento lavoro di ricerca, vivificato poi in palcoscenico attraverso l’interpretazione di importanti prime donne, ricominciando una sua seconda vita nei cartelloni internazionali
Infatti , occorre subito sottolinearlo, in questa partitura Donizetti si disinteressa completamente ai fatti storici inerenti le due regina (basti pensare che la scena dell’incontro di Forteringa, climax della partitura, nella realtà storica non è mai avvenuto ) concentrandosi sul loro scontro personale alimentato dall’amore di entrambe per Leicester che necessita obbligatoriamente di due straordinarie ‘mattatrici’ capaci , non solo d’interpretare il loro ruolo con drammatica partecipazione ma di trasmetterlo in maniera dirompente e appassionato al pubblico in sala , senza tutto ciò qualsiasi operazione filologica, pur scientificamente elaborata, è destinata a cadere.
A Verona tutto ha funzionato , nel suo complesso , a dovere.
La regia di Federico Bertolani si muove attraverso un percorso giustamente dimensionato, impostando concettualmente la pièce attraverso un’analisi delle pieghe delle spartito assai ben definibile e coerente con il dettato donizettiano che , come abbiamo già visto, si concentra con il mondo interiore , così tanto femminile e così poco ‘regale’, delle due donne dandone, in collaborazione con lo scenografo Giulio Magnetto ed il costumista Manuel Pedretti, una diretta e felice visualizzazione in palcoscenico.
La scena infatti , viene definita spazialmente da un’incombente struttura cubica che, perennemente in scena (a parte il quadro di Forteringa in cui si scompone ) rappresenta simbolicamente, attraverso il colore, la prigionia mentale e fisica di Stuarda ( bianco) e l’incubo di Elisabetta, prigioniera anch’essa della sua stessa delirante ossessione (nero) ed il gioco spaziale dei due elementi, coadiuvato da un’attenta cura nei movimenti scenici (rari ed efficaci) unito al lavoro con le interpreti, crea un insieme di grande espressività e potenza teatrale. Valga come esempio il forte impatto emozionale raggiunto nella scena finale in cui Elisabetta, posta di spalle in trono sopra il cubo e stagliata su di uno sfondo color sangue, si alza e si gira lentamente nel momento dell’esecuzione facendo calare su questo una quarta parete; cala il sipario sul mondo di Stuarda, si apre quello di Elisabetta.
Mariella Devia è un prodigio. Lascia esterrefatti l’intatta vocalità di questo grandissimo soprano, la tecnica mirabolante che le consente di affrontare la partitura con apparente semplicità, di risolvere trilli e sopracuti con pulizia e rigore, non trascurando naturalmente l’aspetto teatrale e drammatico della partitura che però, a onor del vero, resta comunque e sempre nella Devia in secondo piano. Non si tratta di mancanza ma di semplice peculiarità, propria ad ogni interprete, che nulla toglie ma anzi accresce la stima per un ‘artista capace di piegare, comunque e sempre, al fraseggio ed alla parola una vocalità tutt’ora smagliante , intensa e dall’incredibile, rarefatta quanto diafana significante.
Sonia Ganassi ne rappresenta l’esatto opposto ; la sua Elisabetta vive e freme in palcoscenico, disperatamente esacerbata da un’amore che la lacera e ne dilania il cuore e che il suo potere non può comprare , in lei la vocalità vive al servizio del teatro, ne conosce i palpiti, ne trasmette le ansie, il tutto perfettamente veicolato attraverso una vocalità musicalmente ineccepibile ed un timbro sempre più intenso ed emozionale quanto tecnicamente ben sostenuto.
Una reale disputa tra due reali regine dunque, nella quale il primo posto non viene assegnato.
Il Roberto di Leicester di Dario Schmunck convince solo in parte. Il timbro sicuramente è assai bello, musicale e tecnicamente ben sostenuto , anche se spesso si sfila ed assottiglia nel registro acuto ed anche il fraseggio non è sempre convincente ed appassionato. Diciamo però che, vista nel complesso, la sua interpretazione denota seria professionalità e, di questi tempi, non è affatto cosa da poco.
Assai bene il Cecil tratteggiato dal giovane baritono Gezim Myshketa che mostra una vocalità interessantissima, assai ben controllata nella tecnica e dosata nei colori così come attenta alla parola ed alla teatralità della stessa, espressivamente delineata nel fraseggio.
Interessante per timbro ma ostacolato da un ‘emissione non sufficientemente controllata, il Talbot di Marco Vinco.
Completava il cast la brava Diana Mian nel ruolo di Anna Kennedy.
Discontinua la prova del M° Sebastiano Rolli alla guida dell’Orchestra dell’Arena. Infatti pur orchestrando con molta finezza ed espressività la partitura donizettiana, egli sembrava, a tratti, perdere omogeneità con relativa conseguenza in palcoscenico dove, molto spesso, l’impasto teatrale non era perfettamente calibrato. Comunque un giovane da tener d’occhio per la raffinatezza formale e l’impegno interpretativo.
Bene il Coro dell’Arena di Verona diretto dal M°Armando Tasso.
Una sala gremitissima (per quasi tutte le recite) mostrava chiaramente che , scegliendo di puntare sulla qualità (anche in teatro) i numeri arrivano e speriamo che l’entusiasmo del pubblico possa averlo mostrato chiaramente ancora una volta, ci auguriamo che di ciò si faccia tesoro…
Verona,10/04/2014
SILVIA CAMPANA