Uno spettacolo che può indubbiamente sconcertare un pubblico che desideri trovare nella rappresentazione di “Aida” (e non solo areniana) una parata di reperti archeologici più o meno ben reinterpretati, dunque con tanto di sfingi, obelischi, cavalli e faraoni in veste dorata ma forse interessare e stupire chi avesse voglia di interrogarsi su come un titolo del repertorio così abusato e celebrato possa essere oggi reso ‘diverso’ e forse incuriosire un nuovo pubblico sempre più difficile da definire nei suoi tratti fondamentali, è questa “Aida” con la regia de “La Fura dels Baus” riproposta, con giusta scelta, quest’anno in arena ( in alternativa a quella più classica del 1913 che occuperà invece gli spazi dell’anfiteatro in agosto) dopo la presentazione lo scorso anno quale spettacolo inaugurale della Stagione del Centenario.
Questa produzione ha i tratti di un racconto, che immerge le sue radici nelle imprese dell’egittologo Auguste-Édouard Mariette, della cui consulenza il librettista Antonio Ghislanzoni si servì per “Aida”, ed è un’interpretazione, certo assai libera, basata sulla partitura e sul libretto e se in alcuni punti disorienta è proprio perchè si pone in maniera diametralmente opposta rispetto a ciò cui la storia registica dell’opera verdiana ci ha abituato. Quella della ‘Fura’ è la rappresentazione di una favola, che rientra nei canoni di una narrazione precisa che fonda la sua principale caratteristica sulla spettacolarità dell’allestimento e, per provare a comprenderla, occorre lasciarsi alle spalle tutto il già visto ed affrontarla come un’ opera nuova.
Devo dire infatti che mi è capitato rare volte di vedere in arena uno spettacolo, che , proprio per la sua peculiarità (apprezzabile assolutamente e solo dal vivo) si plasmasse così bene nello spazio areniano, così impostato sugli elementi della natura (il fuoco che fiammeggia sugli spalti , l’acqua che domina il terzo atto, la terra che crea le dune e l’aria che le modella) e incentrato sulla teatralità e il magnetismo che lo stesso monumento indipendentemente emana.
Certo, l’aspetto fortemente spettacolare è dominante ( nella scena della consacrazione nel I Atto il riferimento alla magnetica visione cui il “Cirque du soleil” ci ha abituato è scoperto) e si rischia di perdere concentrazione assistendo alla costruzione dell’immensa valva specchiata che si chiuderà , diventando specchio madreperlato sugli amanti, sigillata inesorabilmente dalla calata del tempio ( in questa singola scena trovavo però l’edizione originale più snella scenicamente e teatralmente fruibile) ma l’esperimento conosce molti motivi di interesse prettamente teatrale e meriterebbe indubbiamente una visione. La chiave ironica infatti è ben presente a sottolineare alcuni aspetti (coccodrilli) e rende la piéce , a mio parere, molto gradita ed avvincente anche ai critici occhi del pubblico più giovane.
Una chiave di lettura diversa dunque ma non così dissacrante come si può immaginare , il contesto drammatico e narrativo non viene infatti minimamente scalfito nella sua struttura dalla regia e questo rende l’operazione coerente e seria nel suo complesso. Ogni esperimento teatrale che inviti al dialogo (naturalmente costruttivo) ed al confronto è positivo per il teatro salvo poi che , come è giusto, ognuno mantenga la sua personalissima opinione, dunque questo spettacolo merita di appartenere di diritto alla rosa delle produzioni areniane più riuscite nel loro intento: non infangare , deturpare od offendere la partitura ( non vi è nulla infatti di dichiaratamente trasgressivo in scena) bensì proporre un ascolto ed una visione attraverso un filtro o , se così si può dire, un diverso taglio prospettico, tutto qui.
Professionalmente scelto il cast in palcoscenico.
Hui He si conferma vocalità d’indubbia classe. La sua Aida, a parte alcuni momenti in cui la vocalità non è perfettamente dominata dalla tecnica, è di primo livello , per la bellezza del timbro , la sapienza del fraseggio e la misurata espressività così come il Radames di Fabio Sartori che , pur non perfettamente a suo agio in questo ruolo , ne tratteggia un profilo molto raffinato ed attento ai momenti lirici quanto a quelli più prettamente eroici con un risultato complessivo di bell’armonia.
Teatralissima e vocalmente rilevante ( alcune note estreme risultano però un po’ stirate) l’Amneris di Violeta Urmana, centrale nel delineare il tormentato profilo del personaggio, sapientemente interpretato nella sua drammatica evidenza.
Un po’ sotto tono l’Amonasro di Gennadii Vashchenko mentre professionalmente risolto appariva il buon Ramfis di Raymond Aceto.
Completavano il cast: Sergej Artamonov (il Re), Antonello Ceron (un messaggero) e Maria Letizia Grosselli (Sacerdotessa).
La direzione di Julian Kovatchev conosceva alcuni buoni momenti di bella concertazione all’interno di una lettura, nel suo complesso, professionalmente ben risolta.
Un grande successo accoglieva tutti gli interpreti ed il direttore di questa “Aida” che non mancherà mai ad ogni sua presentazione di sollevare l’annoso dibattito (salvaguardia o innovazione?) ma che , soprattutto in questa sede, mi è sembrata sagace e ricca di spunti per sempre nuovi e stimolanti confronti … non dimentichiamoci che il teatro è questo!
Verona, 6/07/2014
SILVIA CAMPANA