Negli ultimi anni l’Estate Teatrale Veronese sembra essersi adeguata ad un modo veloce, un po’ economico e a volte mediatico di fare spettacolo. Anche la produzione dell’opera “Lost in Cyprus. Sulle tracce di Otello”, per la regia di Giuseppe Battiston, in programma per le quattro serate del 2, 3, 4 e 5 luglio al Teatro Romano, sembra risentire di questo sistema un po’ deludente, che impoverisce e spesse volte snatura gli spettacoli previsti per la stagione.
Ineccepibile la traduzione del testo shakespeariano ad opera di Patrizia Cavalli, così come l’abilità interpretativa di Giuseppe Battiston che cerca di mantenere una certa sintonia col resto del cast, non tutto, però, al suo livello.
L’opera, ispirata alla tragedia di W. Shakespeare, dopo alcune vicissitudini organizzative con relativi cambi di attori e regista, ha debuttato in prima nazionale il 2 luglio, in versione piuttosto inusuale e poco convincente. Lo stesso Battiston ha sentito la necessità di motivare al pubblico la scelta strutturale dell’opera, spiegando dal palco, prima di inizio spettacolo, la presenza di parti recitate e parti direttamente lette dal testo. Questa soluzione sarebbe nata dall’idea di dare spazio quasi totale alla parola del drammaturgo inglese; la stessa Cavalli, del resto, ha definito i lavori di Shakespeare “tragedie delle parole”: in esse tutto si lega a ciò che viene detto poiché si tratta di una lingua dotata di carica teatrale.
Tutto vero, ma da attenta spettatrice, durante i 90 minuti di spettacolo non ho ricevuto alcuna energia da tali letture, che non hanno quindi saputo trasformare “le parole in azioni”, così com’era nell’intento registico.
Un’alternanza di recitazione e lettura che trasmetteva piuttosto la sensazione di qualcosa rimasto incompiuto, di parti bisognose di una ridefinizione e di una messa a punto.
Credo che “il verbo” shakespeariano non necessiti di lettura per emergere, ma fluisca direttamente dalla recitazione, formula in cui questo teatro si mostra nella natura originale e nella quale gli interpreti possono mettere in gioco le loro doti così che il pubblico sia in grado di apprezzare, o meno, l’abilità di simulare, impersonare, sperimentare, fingere, sostenere, incarnare e mille altre facce che un attore poliedrico rivela a seconda dell’occasione, e che sono fondamentali per far scaturire tutta la carica comunicativa delle tragedie inglesi.
Anche la scenografia essenziale, costituita da un muro massiccio e squadrato di assi lignee, offriva alla platea l’aspettativa di interpretazioni abili e coinvolgenti , situazione che purtroppo non si è sempre verificata durante l’evento.
Sicuramente il tempo, le prove e le revisioni saranno in grado di migliorare e ottimizzare il lavoro svolto fin qui, sperando che il regista presti attenzione anche ai costumi: un puzzle spaiato e poco efficace di stili ed epoche.
Daniela Marani