SKIANTO AL NUOVO DI VERONA. RECENSIONE

In scena il 12 novembre al Teatro Nuovo di Verona è Skianto ad aprire la consueta Rassegna di L’Altro Teatro, alla sua undicesima Edizione, eccezionalmente non al Camploy ma al Nuovo, probabilmente per la notorietà del nome, che in effetti ha riempito il Teatro di un pubblico composito, mescolando, così almeno è sembrato, un pubblico più tradizionalmente legato al cartellone del Teatro cittadino ed uno più giovane, solitamente incuriosito dagli spettacoli di L’altro teatro, spesso novità di autori ed attori emergenti non sempre noti al grande pubblico.

Non vi è ombra di dubbio che Skianto, produzione di Franco Parenti e del Teatro Stabile dell’Umbria di e con Filippo Timi, abbia rotto gli schemi teatrali tradizionali, snodandosi con agilità, simile ad una serpentina con un percorso zigzagante, a toccare le diverse angolazioni del tema dell’handicap, ora allontanandosi con occhio critico esterno, ora avvicinandosi in simbiosi con l’io narrante, “nella parte” o “dalla parte” del soggetto disabile, gravemente offeso sia fisicamente che psichicamente.

Così l’attore, ripercorrendo la biografia del protagonista dalla nascita, ne racconta il clima familiare,con qualche stoccatina, ma nemmeno troppo profonda, al” benpensantismo” sociale. Racconta la propria solitudine, lo strazio nell’ incapacità di comunicare un mondo interiore ricco di significati e di interpretazioni originali del reale, si rappresenta in uno stato pischico potenzialmente ricco, ma costretto nel grigiore dall’abitudinario e privo di stimoli vivere quotidiano.Vi è un implicito insegnamento martellante nelle relazioni con i pochi affetti della sua vita: non c’è alcuna possibilità di scappare dalla prigione di quel suo corpo incontrollabile. Nemmeno la fantasia può aiutare, perchè anche le favole, come quella di Pinocchio e del burattino che diventa umano, si rivelano inconsistenti nella ormai smaliziata mente del protagonista. Così sembrerebbe essere la morte l’unica possibilità di fuga.

Molti i pregi di questo allestimento che ha il suo maggiore punto di forza nella freschezza del linguaggio: un linguaggio diretto al pubblico senza fronzoli, capace di mescolare con disinvoltura video di pubblicità e di cartoni animati, di giocarne con i clichè rovesciandone il senso, capace di rotture e discontinuità scenografiche,il tutto supportato da una disinvolta e grintosa preparazione teatrale; ma anche qualche difetto a nostro avviso nella mancanza di un rigore di contenuto e formale, di un apporto musicale più d’effetto che “necessario”, non in contrasto ma poco originale, a legittimare la presenza di un musicista/ cantante in scena di indubbia capacità (Andrea Di Donna) e che in effetti ha conquistato la simpatia e il plauso della platea.

Forse una selezione maggiore delle scene e anche di un testo spesso troppo ammiccante, che ha indugiato nelle battute facili e scontate, avrebbero dipinto con maggiore efficacia il mondo di una solitudine disperata.

In definitiva se la messa in scena ha il pregio di alleggerire in chiave comica una tematica dai risvolti drammatici, finisce a tratti per perdere di mordente rispetto al contenuto, trasformandosi in puro spettacolo, con il risultato che la verità scenica più che convincere incuriosisce.

Insomma anche qui i clichè riconoscibili non mancano e ci si potrebbe chiedere, visto che sono spesso un leit motive che accompagnano anche spettacoli di pregio di nuova generazione, se questa sia una scelta “ furba” per accaparrarsi il consenso di larghe fasce di spettatori ( di norma si apprezza un linguaggio che si “riconosce”) o sia l’espressione artistica di un momento storico che preferisce “assemblare” cose già viste magari rimescolandole, per ricreare, piuttosto che intraprendere un percorso diverso

Anche un respiro di sollievo però: finalmente si parla di handicap senza veri disabili in scena.

Emanuela Dal Pozzo

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