Lo spettacolo Canti Orfici/Visioni del Teatro Studio Krypton è andato in scena a Scandicci (Fi), in prima nazionale, dal 13 al 19 dicembre 2014 per la regia di Giancarlo Cauteruccio, a conclusione del ricco ciclo di appuntamenti in programma nel centenario della pubblicazione del Libro Unico di Dino Campana.
Parallelamente alle iniziative intraprese dai Comuni, il Teatro Studio krypton ha organizzato nei territori più significativamente legati alla biografia del poeta una serie di incontri, laboratori, spettacoli e proiezioni di film per conoscere e approfondire la vita e l’opera del poeta di Marradi anche attraverso il lungo percorso di avvicinamento alla sua poesia portato avanti dallo stesso Teatro Studio che, già venti anni fa, aveva messo in scena un primo spettacolo sulla tormentata vicenda bio-bibliografica di Campana (Un poeta in fuga di Roberto Carifi, regia di G. Cauteruccio, 1994).
Se in quell’occasione il regista aveva affidato ad un altro poeta il compito di confrontarsi con i versi dei Canti Orfici, diverse sono state invece le condizioni di partenza per la produzione di quest’ultimo spettacolo, costruito a partire dalla selezione di testi elaborata da Andrea Cortellessa in accordo con le indicazioni e le scelte registiche di Cauteruccio.
Entrando in teatro lo spettatore si trova a prendere posto di fronte ad una sorta di grande schermo cinematografico squarciato e diviso in più pezzi: cadono dall’alto dei lunghi brandelli di tela bianca spiegazzati che, a prima vista, creano una respingente superficie piatta, asettica, sterile. Poi, mano a mano che ci si muove in platea per prendere posto, lo spazio sul palco acquista tridimensionalità, le intercapedini tra un brandello bianco e l’altro si rivelano passaggi nascosti e, quella che era sembrata di primo acchito una parete , diventa agli occhi dello spettatore una vera e propria costruzione architettonica che occupa tutta la profondità dello spazio e la riempie di sporgenze, rientranze, nicchie e passaggi. Appena presa un po’ di confidenza con lo spazio si fa caso al rumore di sottofondo, come di gocce d’acqua che cadono e, la scenografia, pur rimanendo la stessa, cambia, si fa ambiente e suggestiona lo spettatore spostandolo dal chiuso del teatro, all’aperto, davanti ad un paesaggio che sembra di ghiaccio, sullo sfondo del quale sta seduto – raccolto come la monade solitaria di un quadro di Vrubel’, con il volto tra le mani e i gomiti sulle ginocchia – un uomo, vestito con abiti bianchi e stropicciati.
Lo spettacolo inizia quando l’attore comincia a parlare ma è difficile cogliere altro che il ritmo, le cadenze con le quali la luce sfuma e l’uomo si alza pronunciando parole mentre, lentamente, lo spazio intorno a lui si popola: affiorano, come dalle stoffe bianche, delle immagini e, tra una stoffa e l’altra, dal fondo nero emergono delle “forme ignude di adolescenti” evocate dalle parole dell’attore il quale, pur stando nel bel mezzo della scena, ne rimane in qualche modo isolato.
Non è un racconto pittorico quello che ci scorre davanti agli occhi, comparendo e dissolvendosi al ritmo scandito dal suono; le immagini strisciano sul fondale come pensieri che attraversino la mente del poeta, le parole pronunciate dall’attore corrono e lo spettatore, per ascoltarle, deve fare uno sforzo, concentrarsi, per poi sentirsi sollevato nel vedere ribadite in immagini proiettate sul fondale le cose che ha intercettato cercando di stare dietro al flusso di parole pronunciate dall’attore. Il meccanismo messo in atto sulla scena è quindi molto più simile a quello di chi, stimolato mentalmente da un paesaggio, prende appunti per descriverlo e vede emergere sotto i suoi occhi, come dalla carta bianca, un paesaggio uguale e allo stesso tempo diverso da quello che ha sensualmente esperito.
Per un attimo infatti, durante lo spettacolo, compare sullo sfondo anche una ‘visione’ della calligrafia di Campana come fosse un segno grafico equivalente alle immagini di boschi, sorgenti, corpi e architetture che popolano i Canti Orfici. Lo spettatore è quindi messo nella condizione di un lettore che viene continuamente sollecitato a vedere doppio, cioè a guardare i segni e ad afferrare simultaneamente il loro significato complessivo, a partire però da un linguaggio volutamente alterato dove a quello che si vede corrispondono non tanto visioni ma suoni e, a quello che si sente, immagini, come se queste ultime ‘scrivessero’ e fossero invece i suoni ad avere il compito di dipingere gli sfondi.
Questa rincorsa continua tra parole, suoni e immagini è perfettamente in grado di dare il segno della cristallina sfasatura con cui, nei suoi versi, Campana riusciva a creare una sorta di eco tra le immagini oltre che tra immagini e musicalità delle parole e, oltretutto, porta in scena la ridondanza propria alle figure retoriche evitando agilmente la pesantezza della semplice ripetizione.
Non mancano inoltre abili tocchi di regia, momenti che vengono temporalmente prolungati in modo da intervallare ritmicamente la narrazione, come quando l’attore rimane solo in scena con una potente luce di taglio che lo investe dal basso e lo colora di sfumature cromate mentre la sua voce, sonoramente manipolata, si disperde in un flusso d’aria percepibile solo grazie al velo che lui stesso muove alle sue spalle evocando, attraverso questi accorgimenti scenici semplici quanto d’effetto e la posizione assunta e mantenuta dal suo corpo, la scultura Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni; scultura che, come la poesia di Campana, vuole rappresentare simbolicamente il movimento.
Di grandissima importanza è stato il lavoro compiuto da Gianni Maroccolo che ha composto le musiche ed il tappeto sonoro dello spettacolo basandosi sulla registrazione della lettura dei testi fatta da Michele Di Mauro, in modo da creare la perfetta compenetrazione tra parola/immagine sfuggente e suono-sottolineatura che, insieme, hanno creato un’opera a parte, in grado – come dimostra la puntata radiofonica di Rai Radio Tre del 15 dicembre 2014 – di esistere oltre lo spettacolo, ma anche di essere parte essenziale di un’opera teatrale che gli affida il compito assegnato solitamente nello scrivere alla disposizione dei capoversi e alla punteggiatura: quello dunque di plasmarne il respiro.
Davvero molti sarebbero ancora i punti su cui soffermarsi nell’analisi, dalla presenza (o sarebbe meglio dire dall’esistenza) in scena di sette giovani attori ai quali era richiesto di fungere da elemento ‘dispari’ all’interno di uno spazio visivamente ‘simmetrico’, alla nozione di movimento “nello spazio, fuori del tempo” che permette nella poesia come nello spettacolo il germogliare ipertrofico di elementi a partire da quel “panorama scheletrico del mondo” che a tratti evoca una sottesa pagina bianca e a tratti, grazie alle scene di Paolo Calafiore, un paesaggio primordiale, mastodontico e inquietante quanto un ammasso di ossa di dinosauro.
Alla fine dello spettacolo lo spettatore ha però la sensazione di aver vissuto per troppo poco o troppo velocemente la sua nuova condizione di ‘lettore’, non ha umanamente fatto in tempo a mandare a memoria nessuna frase significativa che subito dopo altre immagini e altri suoni arrivavano a colpirlo con la stessa forza. In questo spettacolo si è in effetti elaborato un tipo di narrazione che procede accostando uno dietro l’altro, per dissolvenze, degli snodi narrativi e forse, così facendo, si è pienamente realizzato l’intento poetico di Dino Campana, l’impresa titanica di farsi attraversare da una folgore e di restituirne in cambio una visione spettrografica delle cose viste dall’interno dell’abbaglio. Ed ecco allora che giustamente lo spettatore ne esce un po’ frastornato, tenta di mettere a fuoco il ricordo dello spettacolo ma difficilmente ci riesce: tutto, una volta recuperato torna ad avvicendarsi vorticosamente con altri passaggi, un qualsiasi momento ne richiama un altro e tutto, impietosamente, fugge.
Mariangela Milone