E’ merito del Teatro StudioUno di Roma, la Casa Romana del Teatro Indipendente di Torpignattara, l’avere dato ospitalità a questo straordinario progetto di teatro immersivo, forse il primo in Italia, grazie ad un bando per residenze e realizzato dal 12 al 22 febbraio 2015 dalla Compagnia Amaranta/ Ormafluens: Augenblick- l’istante del possibile. Questo il cast: regista Riccardo Brunetti, drammaturgia di Emiliano Loria, Riccardo Brunetti, i Performer: Alfredo Pagliuca, Carolina Bevilacqua, Emanuele Nargi, Paola Scozzafava, Riccardo Brunetti, Sandra Albanese, Silvia Ferrante.
Onestamente non sapevo a cosa sarei andata incontro quando il 21 febbraio mi sono presentata in coda all’ingresso dell’appartamento appositamente predisposto. Mi aspettavo una performance di teatro d’appartamento, come se ne vedono ultimamente.
Il tutto era circondato da un alone di mistero e di complicità, non ultima la pagina Wikipedia appositamente predisposta che parlava di via Francesco Baracca 52 quale sede di certa Fondazione Sogol dedicata all’omonimo Pierre Sogol, personaggio letterario di “Il Monte analogo” di Renè Daumal, al punto da far pensare ad un progetto finanziato e promosso da questa sedicente Fondazione nel suo 74° anniversario, festeggiato con un Convegno dedicato alla Scienza.
Una lunga coda di persone attende lungo le scale: via Francesco Baracca 52 è la porta secondaria del Teatro StudioUno. Mi spiegherà poi il regista che alcuni torneranno anche nei giorni seguenti a ripetere l’esperienza.
Superato il varco indossiamo una maschera neutra che protegga il nostro anonimato e che non condizioni gli altri con le nostre espressioni mimiche. Scopriamo di partecipare ad una veglia funebre: Pierre Sogol è morto.( La drammaturgia della performance continua il compimento
dell’opera letteraria rimasta incompiuta per la morte dell’ autore)
In realtà nella drammaturgia Pierre Sogol è disperso da mesi e ognuno dei convenuti interpreta la situazione individualmente: chi cercando profitto chi lasciandosi andare a sensazioni ed aspirazioni.
A pensarci più tardi l’idea di una veglia funebre sospesa nel dubbio è davvero geniale perchè permetterà ai performers da un lato di esplorare, esasperare e interpretare in chiave teatrale tutta la gamma degli stati d’animo emotivi e di relazione con l’ assoluta credibilità e quindi verità che una situazione simile comporta anche nella vita reale, dall’altro di stemperarla secondo le proprie convinzioni e speranze perchè l’assenza del corpo induce a intraprendere la “via del possibile”.
“Augenblick é il tempo del desiderio che torce la linearità degli eventi” cita la presentazione.
Gli spettatori così diventano testimoni di una serie di azioni sceniche contemporanee, che si svolgono tra i diversi spazi dell’appartamento tra i parenti e amici del defunto: una concatenazione che segue logiche non lineari. Nell’arco di tre ore saranno liberi di scegliere, toccare mobili, spostare oggetti, annusare fiale, assaggiare liquori, aprire cassetti e ante misteriose, leggere lettere e documenti, in piedi o seduti, vicini o lontani,ma soprattutto di seguire gli avvenimenti secondo il proprio punto di vista parziale, sotto lo sguardo vigile di silenziose guide in maschera nera pronte ad intervenire in caso di bisogno. Non sembra importante ricostruire il senso del tutto piuttosto esserci e interpretare in piena libertà: la regia diventa individuale.
La sensazione è inenarrabile. Il tempo si ferma. Siamo negli anni ’40. Ce lo dicono i giornali originali d’epoca, il rosolio, i profumi, mobili e soprammobili, i costumi, la radio disturbata con evocative musiche del tempo. Circa due ore dopo guardo l’orologio e mi sembrano passati cinque minuti. Più che in un set cinematografico sembra di essere dentro una pellicola in bianco e nero nonostante la gamma di colori: forse perchè come nei vecchi film d’epoca ogni dettaglio viene amplificato. I performer ogni tanto agganciano quasi casualmente qualche spettatore: piccoli contributi ad un copione che il regista poi mi dirà essere assolutamente rigoroso.
Ed ho la chiara percezione di questo spettacolo come qualcosa di più della somma dei suoi elementi. C’è un “quid” imperscrutabile, alchemico, un valore aggiunto che lega il tutto e che lo rende vivo. Parlando degli ingredienti, a parte la cura maniacale scenografica del dettaglio che permette l’immersione, c’è l’intensità interpretativa dei performers, quella che spesso manca nelle performance, solitamente più attente all’idea concettuale che le muove e alla novità dei linguaggi proposti. C’è anche il gusto di un abbraccio letterario: ricorda l’intensità narrativa di certi scrittori del passato capaci di evocare tra le pagine scritte anche il non detto, di dipingere la realtà in chiave tridimensionale tuffando il lettore dentro gli umori, i colori e l’ambientazione delle sue pagine.
Personalmente credo che gli Amaranta abbiano segnato il percorso verso una nuova frontiera teatrale, che cerca di travalicare una serie di difetti del teatro e del teatro performativo, primo tra tutti il sempre più problematico rapporto con lo spettatore, dalla distanza del palcoscenico alla a volte violenza performativa che, per catturarlo, gli impone un coinvolgimento e lo stringe tra le griglie emotivo/sensoriali: pensiamo agli spettacoli la cui drammaticità travalica l’attore diventando piscodramma non scelto anche per lo spettatore, o a quelle performance multisensoriali “costruite” appositamente per un unico o più spettatori, a prescindere dalla sua volontà di adesione, nella costruzione di una sorta di prigione cui è difficile sottrarsi se non con l’abbandono dell’esperienza.
Proprio perchè personalmente rivendico la tutela e il rispetto tanto dell’attore quanto dello spettatore che dovrebbero muoversi su binari paralleli tra loro in empatia, in una comunicazione reciproca di crescita intelligente, quindi consapevole e non strumentale, mi è piaciuta questa qualità di approccio di Amaranta: un teatro immersivo sì ma in piena libertà, che permette molteplici punti di vista e in cui ciascuno prende e dà secondo necessità e sono incuriosita di sapere da dove nasce, come si è sviuiluppato il progetto e qual’è la formazione della Compagnia.
Il giorno successivo incontro il regista per un’intervista.
INTERVISTA A RICCARDO BRUNETTI, REGISTA DI AMARANTA/ORMA FLUENS
Qual’è la storia della Compagnia e da dove nasce l’idea di questo progetto di teatro immersivo Augenblick?
La Compagnia nasce nel 1999 sull’onda del lavoro di alcuni ex-collaboratori di Grotowski, ma negli ultimi anni si apre alle sollecitazioni contemporanee. Nell’esplorazione dei diversi approcci al teatro di oggi ci siamo imbattuti nel gruppo londinese Punchdrunk, che da qualche anno sperimenta il teatro immersivo. Fra i gruppi che si occupano di teatro immersivo in Europa è certamente il più noto e so che il campo si sta sviluppando anche in America. Non mi risulta invece ci siano esperienze simili create in Italia.
Tutta la Compagnia è allora partita per Londra per conoscere meglio il loro lavoro e siamo rimasti là del tempo a studiare i loro materiali, poi quando siamo tornati abbiamo ideato questo progetto e per realizzarlo abbiamo lavorato più di un anno. La nostra fortuna è stata la partecipazione al bando residenziale del Teatro Studio Uno che ha accolto in pieno la nostra proposta e ci ha “consegnato le chiavi” dello spazio da allestire per la messa in scena di Augenblick.
Per me è stata un’esperienza molto interessante e particolare. Qual’è stato l’impatto degli spettatori in questi giorni di repliche?
Non si può parlare di identiche reazioni, reazioni che ci sono state riportate dagli assistenti in maschera nera che osservavano ciò che succedeva. C’è chi ha toccato e assaggiato tutto, aprendo cassetti e ante, chi preferiva stare seduto in silenzio ad osservare le performance, chi leggeva tutte le lettere e i documenti che trovava sparsi in giro e nei cassetti, chi capiva che avrebbe potuto avere un rapporto diretto con i performer in un’esperienza 1-a-1 (solo lì eccezionalmente senza maschera) e si metteva a cercarne l’opportunità, chi per capire lo svolgimento del tutto seguiva tutte le azioni e gli spostamenti di un unico personaggio e poi ritornava per seguirne un altro. Personalmente, ritengo che quest’ultima strategia sia la migliore per comprendere a pieno la drammaturgia dello spettacolo, ma implica il montaggio dei diversi punti di vista, tanti quanti sono i performer.
Mi pare di avere capito che questa esperienza di teatro immersivo residenziale, proprio perché studiato per questo spazio, non sia riproponibile ma si concluda qui.
Si, è così: questo lavoro è stato creato per Studio Uno, in questo senso è realmente “site-specific”. Questa era la nostra intenzione ma è stato un successo superiore a qualsiasi più rosea aspettativa, non solo per l’affluenza degli spettatori ma anche per il loro ritorno le repliche successive, tanto che siamo stati invitati da Studio Uno a riproporlo sempre qui il prossimo ottobre.
Una curiosità. Riuscite a vivere di teatro?
In realtà nessuno. Abbiamo tutti un lavoro che ci permette di mantenerci, ma questa condizione può essere un vantaggio perché il tempo che ci avanza è interamente dedicato alla nostra ricerca teatrale senza preoccupazioni di natura economica.
Emanuela Dal Pozzo