AI MUSEI SAN DOMENICO DI FORLI’ LA MOSTRA“ PIERO DELLA FRANCESCA-INDAGINE SU UN MITO”

Di opere di Piero della Francesca, vista la inamovibilità per la maggior parte di esse dalle rispettive sedi, ce ne sono abbastanza poche alla mostra “Piero della Francesca-Indagine su un mito”, in corso a Forlì, Musei San Domenico, fino al 26 giugno, organizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, e curata da Antonio Paolucci, Daniele Benati, Frank Dabell, Fernando Mazzocca, Paola Refice, con il coordinamento generale di Gianfranco Brunelli. Giusto quante ne bastano per tracciare il percorso della fortuna del loro autore, dal successo in vita, dopo aver metabolizzato le lezioni dei maggiori esponenti della pittura postmasaccesca — da Paolo Ucello ad Andrea del Castagno, da Domenico Veneziano a Masolino, all’Angelico; nonché quella della pittura fiamminga; tutto ben documentato in mostra – irradiando l’influsso innovativo del suo genio dall’Emilia alle Marche, alla Toscana, a Roma, a Venezia, e cadendo poi nell’oblio. Fino alla riscoperta ottocentesca e, soprattutto, di inizio ’900 per merito di studiosi come, in particolare, Roberto Longhi, che individuarono le testimonianze della sua straordinaria eredità in tempi moderni (chi volesse ulteriormente approfondire, nello specifico, il tema del rapporto fra l’arte italiana del ’900 e Piero della Francesca, può visitare, nel Padiglione delle Feste di Castrocaro Terme, fino al 17 luglio, l’esposizione “Il ’900 guarda Piero della Francesca”, a cura di Paola Babini). Un’ eredità che lascia tracce in Macchiaioli, Metafisici, Postimpressionisti, fino all’Astrattismo formale, al Realismo magico e al Realismo romano. Per non parlare degli influssi giunti Oltralpe e Oltreoceano. Risultato, un inedito omaggio al mondo poetico di Piero attraverso un’imponente collettiva-antologica ragionata, che abbraccia oltre cinque secoli di storia dell’arte occidentale, suddivisa in dieci sezioni disposte su più piani, ai quali, peraltro, si accede, al bisogno, con l’ausilio di comodi ascensori.

L’intelligente e impegnativo racconto critico-artistico-storiografico (per un’ottimale fruizione, anche da parte dei non addetti ai lavori, è consigliabile avvalersi della guida del personale preposto, molto ben preparato) inizia con l’emblematico preambolo di due capolavori assoluti messi in relazione, il marmoreo “Busto di Battista Sforza” (1474-75) di Francesco Laurana, e il dipinto “L’amante dell’ingegnere” (1921) di Carlo Carrà, entrambi ispirati al celebre ritratto della Duchessa di Urbino, Battista Sforza, che Piero ci tramanda, racchiusa e irraggiungibile in diafano profilo. Ed è solo l’inizio. Il percorso, infatti, è un susseguirsi continuo di straordinari momenti di emozionante spettacolarità. Quali constatare come la soprannaturale ed eterna immobilità, appena sfiorata da un tocco di pathos, che caratterizza le creature di Piero, riaffiori, per esempio, nel sontuoso ed etereo ritratto de “La nobildonna Marrocchi” (1859) di Antonio Puccinelli; o cogliere la sua lezione nella prospettica luminosità nella quale Silvestro Lega ferma, in atmosfera sospesa, le volumetrie cadenzate e raggruppate delle tre sorelle Batelli nell’interno borghese de “Il canto di uno stornello” (1867). O vedere come certe iconografie di vita trionfante, quali le geometrie ovoidali della Pala di Brera di Piero, si facciano espressione di vita sofferta e grama nelle uova di Felice Casorati – in bilico quali si trovano sul ripiano del mobile – ne “Le uova sul cassettone”. O come, addirittura, l’intero impianto strutturale di creazioni pierfrancescane ispirino in forma e sostanza, oltre la pedissequa riproposizione, capolavori quali, pure di Felice Casorati, la enigmatica “Silvana Cenni” (1922), testimonial, insieme con la “Madonna delle misericordia”, della mostra forlivese.

L’arioso mantello della Vergine ritorna in avvolgente tridimensionalità nella copertura della seduta di Silvana, mentre il copricapo mariano echeggia nella circolare architettura, in alto, al di là della finestra; la dura roccia grigia, in luogo del fondo d’oro, annulla in parte il prospettico spazio esterno, alluso dalla tettoia spiovente e dallo squarcio luminoso all’orizzonte; i fedeli supplici diventano volumi e cartigli ai piedi della donna, cogliendo la natura sapienziale, oltre che misericordiosa, della icona pierfrancescana.

Un’atmosfera misteriosa e sospesa caratterizza, inoltre, dopo la ventata internazionale di “ritorno all’ordine”, in polemica con l’iconoclastia delle Avanguardie e del Futurismo in particolare, tutto il Novecento, assumendo spesso una connotazione magica e inquietante.

Tra i molti esempi, “In tram” (1923) di Virgilio Guidi, fermo immagine di umanità varia, situata in un arcano contenitore sovrastante un luogo senza strade né meta; l’ambiguo “Ritratto di Renato Gualino” (1923-24) di Felice Casorati; o “L’idolo del prisma” (1923) di Ferruccio Ferrazzi, gioco fantasmagorico di specchi sulle certezze matematiche di un prisma, assurto a poliedrico scrigno per una illusoria beltà casta e carnale, ammiccante e sfuggente; e persino il mediterraneo omaggio, onirico e irreale, reso da Massimo Campigli alla fotografia — l’avanzata tecnologia dell’epoca, committente l’allora mitica Ferrania — ne “La spiaggia” (1937), lunga sequenza di gruppi in posa per lo scatto nella calura estiva di un litorale marino, cadenzato dagli apparecchi fotografici e dalle geometrie di oggetti sparsi qua e là e dai volumi di tende e ombrelloni.

Ma la ricerca e l’individuazione dei rimandi e delle corrispondenze potrebbe continuare a lungo ancora, facendosi quasi piacere ludico. Gli stimoli, in mostra, di certo non mancano.

Inoltre, un grande aiuto lo fornisce il bel catalogo di Silvana Editoriale, riccamente illustrato e con saggi di Antonio Paolucci, Daniele Benati, Giacomo A. Calogero, Fernando Mazzocca. Lo completano una ricca bibliografia e i contributi, tra gli altri, di Luciano Cheles, Marco A. Bazzocchi, Mario Ruffini, rispettivamente su pubblicità cinema e musica.

Franca Barbuggiani

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