Al terzo appuntamento coreutico della stagione filarmonica, Fondazione Arena ripropone due intriganti coreografie di Renato Zanella (ora riprese da Gaetano Petrosino), entrambe su musiche di Igor Stravinsky, “Apollon Musagète” (1928) e “L’uccello di fuoco” (1910), entrambe ispirate al mito – quello classico di Apollo e le Muse, quello fiabesco popolare russo del magico uccello di fuoco – ed entrambe già messe in scena con successo dall’ente veronese nel 2011 (“Omaggio a Stravinsky”) e nel 2015 (“Gala di mezza estate”).
Significative, peraltro, le innovazioni introdotte per l’occasione dal corografo di origini veronesi (presente in teatro la sera del 5 maggio, come per una “prima” a tutti gli effetti) quali, in “Apollon”, la reintroduzione del Prologo con il parto di Leto – arricchendo così di forza espressiva un’apertura teatrale gusto anni ’70, con l’ingresso del protagonista dalla platea, e addentrandosi senza indugi nel cuore della vicenda -, oltre alla moltiplicazione della figura della ninfa Eco (incaricata da Zeus di intrattenere la olimpica consorte Era durante le scappatelle amorose del di lei divino sposo) in replicanti divinità.
Fondamentale resta il ruolo di Tersicore, alla quale è assegnato il compito di trascinare Apollo in un vortice iniziatico di danze fino alla piena consapevolezza di sé, ribadendo l’alto valore pedagogico dell’Arte. Per Apollo, certamente, ma anche per lo spettatore. Ecco perché due sipari in scena: quello che varcherà Apollo, non più giovane uomo in ricerca ma luminosa essenza priva di orpelli, per avviarsi verso più consone dimensioni, e quello riservato allo spettatore, in ascesa verso più alti livelli culturali e spirituali ogni qualvolta si accosterà al Teatro.
Anche le scene e i costumi sono di Renato Zanella, che cura pure le luci, per un insieme armonioso di classicità e modernità, in risonanza con il linguaggio coreutico adottato in un balletto che permea la narrazione di psicologia e adegua il gesto all’input musicale.
Troviamo così in scena ruderi di colonne classiche greche in pendant con cilindri di plexiglas riproducenti opere di tre pittori contemporanei, Hermann Nitsch, Gerhard Richter e Christian Ludwig Attersee; olte all’essenzialità di mise moderne, abbinata all’eleganza sontuosa di costumi fantasiosi o vagamente ispirati all’antichità, nel dualismo cromatico del bianco e del nero; tutto ben valorizzato da un gioco luminoso efficace senza invasività.
A interpretare Apollo è il primo ballerino ospite Mick Zeni, veronese d’origine e in forze alla Scala di Milano. Dotato di bella fisicità, ottima tecnica e buona espressività, si è ben calato nel ruolo del dio alla ricerca e alla scoperta della propria natura solare e divina, grazie all’impegno maieutico di Tersicore (una morbida Amaya Ugarteche) insieme con Calliope e Polimnia, rispettivamente rese con incisività da Alessia Gelmetti e Teresa Strisciulli. Molto bene, inoltre, lo Zeus di Evghenij Kurtsev.
Decisamente più accademico e memore dei Ballets russes, “L’uccello di fuoco”, che ha occupato la seconda parte della serata. L’arte è di nuovo in scena con un acquarello di Léon Bakst, al quale si accostano i simboli della fiaba russa: l’albero, la mela d’oro, la gabbia, l’uovo; mentre i costumi, nei chimoni delle principesse, rendono omaggio alle mode parigine degli anni del mitico Djagilev. Pregevole anche in questa parte la prestazione dei primi ballerini di Fondazione Arena: Alessia Gelmetti, Uccello di fuoco morbido e scattoso, Amaya Ugarteche, Principessa egualmente a proprio agio sia nei modi classici che in quelli modernamente più liberi, e Antonio Russo, valido partner e porteur quale Principe. In evidenza, inoltre, Pietro Occhio nei panni stregoneschi di Kascej.
Esiti alternanti da parte del Corpo di Ballo.
Roman Brogli-Sacher ha diretto con rigorosa scansione (meno attento a timbri e colori) l’orchestra areniana.
Applausi calorosi per tutti.
Franca Barbuggiani