Ancora una volta qui ed ancora una volta con la “Carmen” firmata Franco Zeffirelli che, dal 1995, imperversa sul palcoscenico areniano.
Ormai la bella trovata del sipario mobile, quinta tessile ed impalpabile in bel contrasto con la massiccia realtà della millenaria arena, che tante problematiche portò alla prima, è diventata una consuetudine e, pur con qualche rimaneggiamento, non può sollevarsi oltre una confezione assai ben fatta di un prodotto adatto ai neofiti del melodramma o a chi lo ama cristallizzato in un eterno prontuario fossile.
Altrettanto da sottolineare altresì l’efficacia dell’impostazione zeffirelliana la quale, attraverso la sua cura tutta viscontiana per i particolari, riesce a realizzare un microcosmo ottocentesco sul palcoscenico, assai ben visualizzando, almeno in questo allestimento, il significato del termine ‘areniano’ ormai divenuto un aggettivo atto a definire allestimenti spettacolari e principalmente basati su un abile gioco scenico, un dinamico spostamento delle masse ed una ricerca dell’effetto ad uso prettamente teatrale e, diciamolo pure, se in arena si producessero allestimenti di livello con questo intento, dichiarandolo apertamente, saremmo a metà dell’opera.
In palcoscenico si muoveva un cast di ben rodati artisti.
Luciana D’Intino, dalla vocalità sempre interessante e teatralmente efficace , specie nel registro più grave, ha confermato la sua provata professionalità tratteggiando una Carmen sostanzialmente corretta ma priva della sua anima.
La sua caratterizzazione del personaggio, infatti, non contemplava particolari raffinatezze espressive limitandosi ad un’interpretazione di maniera che non contribuiva ad esprimere compiutamente uno dei ruoli più complessi e densi di sconcertante modernità del grande repertorio.
Jorge De Leòn tratteggiava un Don Josè di sostanza dal timbro robusto ed accattivante ma limitato da un’impostazione tecnica che lo portava a cercare troppo spesso un canto sfogato, perdendo in morbidezza espressiva e raffinatezza timbrica.
Molto buona al contrario la Micaela di Ekaterina Bakanova la quale, pur non possedendo un timbro particolarmente rilevante per nitore e limpidezza, lo governava con abile perizia grazie ad una robusta tecnica che le consentiva pieghe interpretative raffinate ed un fraseggio molto curato con un conseguente cesello del personaggio teatralmente completo.
Un po’ sacrificato il bravo Dalibor Jenis nel ruolo di Escamillo dove non riusciva ad emergere con la consueta perentoria drammaticità e corretti, ma con non poche sbavature, Madina Karbeli (Frasquita), Clarissa Leonardi (Mercedes), Gianfranco Montresor (Dancairo) e Paolo Antognetti (Remendado).
Molto bene Marcello Rosiello (Morales) e corretto Gianluca Breda quale Zuniga.
Da segnalare la prestazione dei primi ballerini del corpo di ballo areniano, così tanto pesantemente tartassato dalle note vicende della Fondazione: Alessia Gelmetti, Teresa Strisciulli, Amaya Ugarteche, Evghenij Kurtsev e Antonio Russo.
Principale responsabile della scarsa tonicità artistica della serata la direzione del Maestro Xu Zhong alla guida dell’Orchestra areniana che non solo ha dato una lettura completamente priva di espressività e fraseggio ma, oltre ad abbattere la fantastica gamma cromatica della partitura, ha messo in serio imbarazzo solisti e coro con un risultato complessivo assai ben prevedibile.
Le motivazioni per le quali l’inaugurazione della Stagione ( e di questa in particolare, già così critica ) sia stata messa nelle mani (anzi nella bacchetta) di questo professionista ci sfuggono, ma certo ci saranno state ed avranno avuto il loro certo peso; spero in futuro ( ma il discorso vale per molti Enti) che la scelta del Direttore torni ad essere la base per la costruzione di uno spettacolo e non viceversa dove spesso risulta come un fiocco su un pacchetto già fatto.
01/07/2016
SILVIA CAMPANA