“Turandot” ritorna in arena nell’allestimento che Franco Zeffirelli ideò per il Teatro alla Scala per la Stagione 1983/1984 e che ampliò poi in diverse varianti (molto nota quella per il Met) per giungere a quella che dal 2010 è presente abbastanza costantemente sul palcoscenico areniano, offuscando tutte le produzioni che l’hanno preceduta e che ne costituirebbero, così come per altri titoli, la sua cronologia in arena, che, se avesse tutelato a dovere la sua storia invece di collezionare debiti, avrebbe potuto vivere di un credito artistico di incalcolabile valore a livello internazionale, ma questo ormai è vecchio ritornello.
Indubbiamente l’ impianto dell’idea originaria resta avvincente e magico ( la visiva e marcata divisione tra popolo e reggia con i relativi mondi a questa annessi ) ma in arena perde completamente quella teatrale tinta fiabesca che aveva reso l’edizione scaligera complessivamente assai più efficace e coinvolgente .
Di quella Cina ai confini estremi del mondo ( così ben rappresentata dai tre personaggi di Calaf , Timur e Liù ) che l’originale regia zeffirelliana così bene veicolava attraverso costumi e movimenti, ben poco è stato mantenuto, naturalmente a favore di una spettacolarizzazione totale che in arena si può perdonare ma non ignorare.
Così, per fare un esempio, la meravigliosa scena degli enigmi, immobilizzata nell’impianto scenografico fisso, perde un po’ della sua magnetica centralitá teatrale, riducendosi a sfondo indubbiamente affascinante ( gli applausi a scena aperta non possono mancare e sono meritati) ma che, dal punto di vista della dinamica teatrale, risulta fatalmente piatto .
Ad impersonare la crudele principessa il soprano Oksana Dyka confermava una vocalitá dal timbro decisamente interessante anche se troppo spesso crescente e, com’è noto, Turandot è un ruolo impervio e che necessita di maggior rotonditá espressiva in tutta la gamma, elemento che l’artista, probabilmente e giustamente preoccupata dall’aspra tessitura, ha decisamente trascurato, più attenta ad eseguire correttamente le temibili asperità del ruolo. Probabilmente, con la maturità e l’esperienza, alcune note raggiungeranno maggior omogeneitá perdendo quella fissità che a tratti ne connota l’emissione, giungendo ad un’ interpretazione che, più concentrata sul fraseggio e la parola, la porterá a dominare il suo importante strumento, ora il più delle volte incentrato su di un canto sfogato che poco spazio lascia all’interpretazione.
Carlo Ventre donava al personaggio di Calaf la sua solida professionalità e portava a termine la recita, ben dosando energie e fiati ed avvalendosi della sua confidenza con l’ anfiteatro mentre la voce di Elena Rossi appariva poco consona al ruolo di Liù che affrontava sommariamente sia dal punto di vista vocale che interpretativo .
Interessante il Timur cesellato da Carlo Cigni con molta misura e teatrale sensibilità modulando la sua timbrica, morbida e ricca di armonici, al servizio della parola, mentre corrette ma nulla più risultavano le maschere che vedevano impegnati Fedrico Longhi (Ping), Francesco Pittari (Pong) e Giorgio Trucco (Pang).
Completavano il cast : Cristiano Olivieri (Altoum), Paolo Battaglia (Mandarino) e Michele Salaorni (Principe di Pesia).
Priva di una qualsivoglia linea interpretativa la direzione del Maestro Andrea Battistoni che, per nulla in linea con il palcoscenico (e qualche problema anche con il buon coro areniano ) si concentrava sull’aspetto più roboante di una partitura che in realtà dovrebbe essere tutt’altro.
La vista di un’arena gremita in ogni ordine di posto scaldava il cuore, ricordando come e quanto questo teatro ( perché di monumento artistico e spazio teatrale all’aperto dal 1913 si tratta, occorre forse sottolinearlo prima che altre destinazione d’uso spuntino fuori dal cappello) sia amato da un pubblico vasto ed eterogeneo che, a volte animato dalla curiosità, a volte dalla passione e spesso dalla tradizione stessa del luogo, riconosciuto a livello internazionale quale palcoscenico di riferimento per l’opera tradizionale, potrebbe davvero essere il volano per un rilancio della Fondazione, a patto che di teatro si voglia davvero parlare, concentrandosi sulla qualità artistica e basandosi su di un progetto che coinvolga ‘in primis’ la città che dovrebbe viverlo e sentirlo con energia e passione costante.
Verona, 23/07/2016
SILVIA CAMPANA