GIULIO CESARE AL TEATRO ROMANO. RECENSIONE.

riondino_1Preceduto dalla consegna del 59mo Premio “Renato Simoni” per la fedeltà al teatro di prosa a Toni Servillo, poliedrico attore napoletano che partendo dai classici partenopei si è quindi misurato con i grandi drammaturghi francesi fra tra Sei e Settecento e con Goldoni, oltre che, come regista, con il teatro musicale (Mozart, Rossini, Cimarosa, Richard Strauss, Beethoven…) e che, nel cinema, ha impersonato ruoli pluripremiati (prestigioso, tra tutti, nel 2014 l’Oscar per “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, miglior film straniero), il 68mo Festival Shakespeariano dell’Estate Teatrale Veronese ha preso il via al teatro Romano, esaurito in ogni ordine di posti, con “Giulio Cesare”. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto-Teatro Nazionale in collaborazione con l’Estate Teatrale Veronese, viene dato in prima nazionale ed è stato replicato fino al 9 luglio.

Il testo, scritto nel 1599 e ispirato in parte a fatti storici e in parte alla traduzione di Thomas North delle “Vite dei nobili greci e romani” di Plutarco, concentra nel breve arco di sei giorni le vicende del triennio che va dal 45 al 42 a.C. – dalla vittoria di Munda al suicidio di Bruto – e verte sul tema del potere, in particolare dell’uso che esso fa della violenza – assassini politici e guerra, in particolare – e della capacità manipolatrice che la parola può assumere nei confronti della folla. gruppo

Il regista Alex Rigola, avvalendosi della moderna ed essenziale traduzione di Sergio Perosa opportunamente adattata per sottrazione, rende il dramma – la prima delle grandi tragedie del Bardo — ancor più incalzante e incisivo. Ottimo supporto per una lettura assolutamente moderna, intrisa di dolente, disincantata attualità; dove non esistono eroi, ma uomini limitati e dubbiosi, persino fragili; dove la violenza, ben lungi dal risolvere problemi e dal cambiare le cose, genera altra devastante violenza. E a farne le spese? Sempre e soltanto i più fragili e innocenti.

Lo spettacolo, che parte alquanto statico per poi risolversi in roboante teatro di provocazione, si presenta soprattutto come teatro di parola. Una parola resa udibile dal determinante supporto dei microfoni, che ben si sposa con la proiezione di brani filmati di gusto cronachistico e documentaristico. E’ articolato in varie parti introdotte da brevi titoli (“words”, “war”…) proiettati su schermo, quasi una memoria riveduta e corretta in veste tecnologica di modi teatrali elisabettiani; mentre l’uso di movimenti di gruppo danzati e la cifra collegiale del lavoro sottolineano quanto il potere, con le sue responsabilità, non sia mai un esercizio solitario. Così, in libera multimedialità, nello spazio scenico “atemporale” di Max Glaenzel – connotato da un parallelepipedo che si fa schermo, allude a un sito altro, si trasforma in teca per ossa dalle quali affiora il solito (ahimè) bimbo annegato ributtato sulla spiaggia dalla risacca del mare, metafora di tutti i deboli, innocenti, indifesi, perseguitati -, nelle luci evocative di Carlos Marquerie e avvolto nel mondo sonoro post-contemporaneo di Nao Albet, questo “Giulio Cesare” è un infamante omaggio al potere e alle sue regole di autoconservazione, immutate in ogni tempo. Un potere che alla violenza non rinuncia; un potere che sacrifica l’uomo a una non ben definita e pretestuosa “umanità”; che persegue la pace con la guerra; un potere di lupi famelici travestiti da rassicuranti animaletti di pelouche; un potere ormai non più monopolio maschile, ma che ha fagocitato anche le donne, corree in ruoli fondamentali e addirittura primari.

riondino_gruppo1Così risulta del tutto naturale la scelta di affidare alcune parti maschili a interpreti femminili (Margherita Mannino, Casca; Eleonora Panizzo, Decio; Raquel Gualtero, Cinna; Beatrice Fedi, Ottaviano) tra cui quella di Cesare, assegnata alla brava Maria Grazia Mandruzzato.

Pure i costumi, ideati da Silvia Delagneau tra il classico contemporaneo e il pop, sono unificati e omologati per tutti.

Tra i numerosi interpreti, ben dodici in scena e tutti ben calati nei rispettivi ruoli (oltre alle già citate attrici, gli attori Pietro Quadrino, Metello, Riccardo Gamba, Lepido, Andrea Fagarazzi, servitore) spicca il Marco Antonio di Michele Riondino nell’asciutto e antiretorico ricordo funebre per il dittatore assassinato.

Interessante, inoltre, il Bruto di Stefano Scandaletti, che privilegia l’aspetto idealistico, quasi filosofico, del personaggio, anziché accentuarne il peso drammatico.

Incisivo Michele Maccagno nei panni di Cassio, come pure Silvia Costa in quelli di Porzia, unica parte femminile della tragedia shakespeariana.

Accoglienze calorose del pubblico, con qualche dissenso captato uscendo dal teatro.

Franca Barbuggiani

condividi questo articolo:
SOCIALICON