E il Festival dei Teatri d’Arte Mediterranei , in scena a Formia dal 19 al 21 agosto 2016, vola. Vola sul mediterraneo, rimbalzando dalle coste italiane a quelle tunisine e spagnole, per spingersi fino in Grecia, quasi ripercorrendo a ritroso le rotte antiche dei naviganti, ambasciatori di culture e cancellando per un attimo la triste fama di questo mare, oggi noto alle cronache solo per gli eventi luttuosi legati agli sbarchi clandestini.
E di certo ci vuole il coraggio e la determinazione del Teatro Bertolt Brecht, anche nella consapevolezza dei propri limiti, per intraprendere solitario questa battaglia, questa sfida controcorrente ad una mentalità che anche nei migliori casi di “ bonismo” ( per citare un termine utilizzato dallo scrittore e giornalista sardo Matteo Tuvari nell’intervento durante l’incontro/confronto “Abitare il Mediterraneo- le vie del mare- storie migranti, bonismo che evidentemente non basta) vede il Mediterraneo come linea di confine, spartiacque che per essere attraversato richiede ragioni più che valide, dimenticando che il Mediterraneo, culla di civiltà, appartiene da sempre a tutti.
Ecco che allora il rendere operativo, praticabile, concreto il concetto di Mediterraneo come risorsa ( e non solo culla di morte), secondo l’evidente ovvietà di una logica storica, diventa oggi un’impresa donchisciottesca, di cui il direttore artistico del Teatro Bertolt Brecht Maurizio Stammati dev’essere consapevole, se introduce questo Festival 2016 con la dicitura” Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo. Albert Einstein” stampata anche sulle magliette a disposizione del pubblico.
E a dispetto di tutto e di tutti, compreso il ben esiguo contributo economico comunale di 5.000 euro, frutto della vincita di un Bando, il miracolo avviene.
Si tesse una rete reale di collaborazioni, frutto di progetti comuni, che rimbalzano da un capo all’altro del Mediterraneo, con presenze autorevoli, importanti esponenti del mondo culturale di Spagna e Tunisia, non solo qui impegnati quali referenti in incontri/dibattito, tre previsti nel Festival, ma direttamente coinvolti in progetti culturali compositi e interdisciplinari, da realizzarsi secondo una stretta cadenza temporale, monitorati e portati a termine a Formia con produzioni artistiche che ne restituiscono il senso e il percorso.
Parliamo in questo caso dell’interessante progetto, già iniziato lo scorso anno, che vede la messa in scena di una nuova riscrittura di Medea, “ Medea a Camarinas”, di Andreàs Pocina, professore di filologia latina all’Università di Granada ( Spagna), messa in scena dal Teatro Bertolt Brecht, passando attraverso la concertata traduzione italiana edita da “Il Sextante” e del successivo analogo “ Crepuscolo a Mitilene” dello stesso autore: conversazione della poetessa Saffo di Lesbo con sei delle sue discepole, con lo stesso iter teatrale e l’identica Casa Editrice coinvolta e in questo Festival rappresentata da Mariapia Ciaghi che la dirige.
Un progetto quindi pluriennale che vede l’intreccio di diverse professionalità attorno ad opere magistralmente scritte e di una fluidità e consequenzialità logica da renderle immediatamente fruibili nella versione teatrale. (Mi raccontava a questo proposito l’autore che in Spagna “Medea a Camarinas” è stata rappresentata da diverse Compagnie e che in particolare ricorda tra le tante una messa in scena, peraltro premiata, in cui il lungo monologo della protagonista veniva ottimamente interpretato da diversi attori maschi ciechi.)
Appare chiara la molteplicità di valenze di questi corposi progetti, non solo legati all’interazione fattiva tra diverse culture del Mediterraneo come in questo caso quella spagnola, greca e italica, quanto anche, sia il recupero delle nostre matrici culturali letterarie mediterranee che rischiano di scomparire dalla nostra memoria ( in un momento come il nostro in cui forte si sente il desiderio di radice e di appartenenza e forti sono le spinte che ci portano a rintracciare una nostra identità storica), sia una rilettura in chiave critica della donna del tempo, sottomessa e priva di diritti nella realtà sociale dell’epoca e sorprendentemente attuale e rivendicativa secondo le scritture dei grandi tragici greci, quesito che in modo affascinante e simpatico ha posto lo stesso Pocina nel corso dell’incontro/ confronto “ La Torre di Babele- Lingue, linguaggi, letterature del Mediterraneo”.
Sempre della donna in modo brioso parla anche Aurora Lopez, docente di filologia latina all’Università di Granada, all’interno dello stesso incontro, delineando le figure di tre grandi attrici del Mediterraneo, la greca Katina Paxinou, la spagnola Nuria Expert e l’ italiana Emma Gramatica, accomunate dalla stessa forza di carattere, presenza scenica, e spessore interpretativo, uniche ragioni del loro successo sulla scena e così lontane dai canoni estetici delle star di Hollywood. E’ una frecciata questa assolutamente attuale in un momento in cui l’ “apparenza” sembra vincere sui contenuti, trasversale tendenza in tutti i campi e che meriterebbe un approfondimento a sé anche in campo critico teatrale per certe mode e tendenze che portano a premiare il “nuovo”, considerato sinonimo di “interessante” e “bello”, anche quando non vi è una sostanza che ne supporti la legittimità, scelte non solo discutibili sul piano estetico/culturale ma che hanno gravi ripercussioni poi in ambito di percezione culturale complessiva ( slittamento di valori) e di scelte economiche.
Un Festival, completato da artisti tunisini e greci, che ad un’analisi in dettaglio richiederebbe davvero molto tempo per la complessità delle tematiche in gioco e l’intreccio interculturale presente con tutte le caratteristiche peculiarità di ciascuna cultura espresse nei diversi linguaggi, predominante quello musicale – mi spiega poi Stammati, il Direttore Artistico scelta fatta per ovvie ragioni economiche – ma che senza dubbio ha chiaramente sfatato i più importanti pregiudizi che attribuiamo al mondo arabo in ordine a libertà, cultura e religione, senza dubbio non simile al nostro ma in cammino verso la conquista di una sempre maggiore libertà personale, anche femminile e della salvaguardia di diritti irrinunciabili.
Ce ne parlano i due governatori tunisini invitati, Akremi Dhaker e Mourad Amara, da tempo in contatto e reciproco scambio con il Festival di Formia, ciascuno di essi responsabile culturale di una regione confinante con la città di Tunisi ed entrambi impegnati in ampi e complessi progetti culturali con Festival teatrali tunisini ricchi e aperti al nuovo ( in particolare alle presenze di Compagnie teatrali europee come quella di Bertolt Brecht) nel corso dell’incontro/ confronto “ Abitare il Mediterraneo- Quale Dio? Le religioni del Mediterraneo”, un tema provocatorio a più voci che ha visto la presenza anche del religioso cattolico Don Carlo Lembo e del laico Pasquale Gionta.
Gli stessi responsabili culturali tunisini mi racconteranno poi di come il governo stesso negli ultimi anni abbia voluto ed imposto una scuola e un teatro in ogni città, ma anche del grande rispetto da parte del Governo Tunisino, che poi si traduce in sostentamento economico, di tutte quelle realtà ( da noi chiamate” residenze”) che producono cultura, spesso gestite da figure femminili.
Ci parla di conquiste sociali nel suo spettacolo di teatrodanza anche il tunisino Taher Issa Ben Larbi, una performance che, tra danze di ispirazione berbera, oggetti simbolo della tradizione islamica e commenti registrati in lingua italiana, racconta la difficoltà dell’evoluzione culturale tunisina, segnata da tappe politiche importanti, istituzionali e rivoluzionarie.
Un festival insomma, questo di Formia, economicamente poverissimo ma con direzioni precise, verso un allargamento inimmaginabile di confini, ricco di spunti e di temi di grande ed attuale interesse.
E’ evidente che in questo contesto ciò che muove non possono essere le simboliche risorse a disposizione, (nemmeno capaci oggi di retribuire tra spettacolo, spese di viaggio e di permanenza un’ unica compagnia professionista per quanto poco nota) rispetto al quale budget nessun ente, organismo, istituzione o realtà teatrale professionale si azzarderebbe a progettare a tavolino un Festival, quanto piuttosto un incontro di “urgenze” poetiche, di sensibilità intellettuali, culturali e artistiche, più forti di qualsiasi contrasto od impedimento; coincidenze di incontri che non possono certo essere solo frutto del caso. Come dire che le cose accadono quando il terreno è fertile e pronto ad accoglierle.
Un Festival questo che ha segnato anche una svolta, come poi mi dirà Stammati durante un’intervista, nel cambiamento strategico del luogo: il Parco Regionale di Gianola, con splendidi anfratti lungomare solitari e protetti, come “il Porticciolo” o “L’antica cisterna” tra i ruderi di Villa di Marmurra, luoghi lontani dalla vita cittadina, che inducono al cammino per la loro riscoperta e a quell’ “intenzionalità dell’esserci” oggi così lontana dal “tutto pronto e facile “, sottolineata peraltro dal primo appuntamento mattutino delle sette, di letture con vista a strapiombo sul mare e una passeggiata per arrivarvi tra le piante secolari del parco e che, contro ogni ottimistica previsione, ha raccolto ogni mattina una quarantina di spettatori, contro alcune centinaia durante gli spettacoli.
La constatazione di quanto è avvenuto a Formia nel corso del Festival 2016, con la serie di eventi preannunciati e risolti di fronte ad un pubblico di cittadini e non da addetti ai lavori ( cosa non sempre così scontata nei Festival di teatro), eventi cui ho quasi sempre assistito, ci induce a riflettere su una serie di questioni legate al teatro che poco vengono dibattute e quando lo sono lo si fa estrapolando dal contesto le singole osservazioni ( in particolare quelle di ordine economico ma non solo), come se esse non fossero strettamente intrecciate tra loro, dando adito a “luoghi comuni del pensiero” primo tra tutti “Se non ci sono soldi non si può fare cultura”, affermazione che andrebbe tradotta in ”se non si vuole non si fa cultura” perchè è dimostrato che se il budget in alcuni casi fa la differenza, non sempre i soldi sono sinonimo di qualità, al contrario. Le buone idee, le motivazioni, le urgenze sono una garanzia, così come questo piccolo e non pretenzioso Festival, ma dagli orizzonti eccezionali, ha saputo dimostrare, segnale di una vitalità destinata però a sciamare nel silenzio fino a spegnersi, se non sostenuta da nuovi apporti ideativi, creativi ed economici.
CHICCHE E CRITICITA’ DAL PUNTO DI VISTA ARTISTICO
Indubbiamente il festival ha dimostrato come principale punto di forza questa visione allargata sociale di convivenza interculturale proiettata in un futuro visionario di condivisione e scambio artistico tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, visione costruttiva di pace, di sviluppo ideativo, di prosperità artistica. Di impronta assolutamente originale, coerente al proprio interno con le scelte operate, eventi legati tra loro da un filo conduttore chiaramente dialogante in chiave sociale, aperto con fiducia agli apporti stranieri, senza remore o particolari filtri selettivi, il Festival si è rivelato una vetrina di produzioni di spessore diverso.
Hanno brillato sopra tutti il film di recente produzione, presente il regista Emiliano Barbucci, “Gramsci44”, documentario/film ottimamente interpretato che ha reso una radiografia chiara di quei 44 giorni passati da Antonio Gramsci nell’isola di Ustica, un film analiticamente descritto la cui chiave interpretativa ci veniva restituita in corso di proiezione dalle lettere autografe di Gramsci alla cognata e dalle testimonianze dirette ed indirette degli isolani che ne hanno condiviso la presenza.
Ciò che rende gioiello questo film, sul piano artistico, non è solo la ricostruzione dello spessore del personaggio, ma la fedeltà/verità che si indovina sia dal detto che dal non detto.
Le scarne frasi concrete che ci restituiscono il mondo di allora e la sua modalità comunicativa essenziale in cui gli oggetti semplici diventano tramiti comunicativi e le immagini e i ritmi distesi scelti per raccontarci questo spaccato di vita, illuminano il mondo di solitudine esistenziale dei confinati, sospesi tra la nostalgia di ciò che sta al di là del mare e la possibilità della mente di viaggiare oltre i confini fisici e materiali, a sottolineare la figura di intellettuale di Gramsci e le sue visioni proiettate verso il futuro. Un capolavoro che potrebbe sembrare anacronistico e controcorrente in una società incapace di riflessione come quella odierna e che segna forse, anche per la scelta del tema trattato oltre che per le modalità, ce lo auguriamo in virtù della giovane età dell’autore, un’inversione di tendenza.
Da segnalare invece in ambito teatrale “ Febbre per il commissario Ricciardi” di Maurizio De Giovanni con il bravo Paolo Cresta, attore di assoluta padronanza scenica, capace con pochi tratti di delineare caratteri fisici e qualità morali nell’interpretazione dei diversi personaggi della vicenda: una prova di tutto rispetto e che ha riscosso grande successo.
In ambito musicale due esibizioni: il “Concerto alla luna” con le musiche e le melodie della Tunisia suonata al liuto dal tunisino Samih Mahjoub, musicista e compositore, docente dello strumento all’Università di Tunisi e “ Antichi sapori di Grecia”, concerto della tradizione greca durante il quale le due brave e poliedriche musiciste greche Maria Abaragì e Alexia Tanouri si sono alternate tra fisarmonica, percussioni, canto e tzouras, creando atmosfere a tratti allegre e a tratti nostalgiche, con canti provenienti dalla tradizione, per raccontarci le vicissitudini dei migranti e delle isole greche.
Alcune criticità sono invece emerse da quanto visto proprio ad opera del Teatro Bertolt Brecht, più impegnato qui in questo Festival in letture che in produzioni, di un livello dignitoso ma non sempre affrontate in modo approfondito come avremmo voluto. Parimenti la messa in scena di “Medea a Camarinas” , per la regia di Maurizio Stammati e peraltro bene interpretata da Margherita Vicario nella parte della protagonista, ci pare un lavoro ancora in progress e che necessiterebbe di ulteriori interventi di approfondimento. La necessità forse ci pare per il Bertolt Brecht di quell’apporto di nuova linfa vitale che potrebbe arrivare proprio dallo scambio e dal confronto con altre realtà teatrali nazionali e internazionali.
INTERVISTA AL DIRETTORE ARTISTICO MAURIZIO STAMMATI
Come e quando nasce il Festival e perchè? Come muta nel tempo e arriva fino ad oggi?
Il Festival nasce nel 2005 come necessità di apertura e di incontro/scambio tra le Compagnie di teatro professionista del Centro Sud affacciate sul Mediterraneo. L’idea allora era quella non solo di conoscere le altre realtà presenti nel territorio italiano ma soprattutto quella di creare una rete di scambio artistico ma anche di solidarietà, all’interno della quale poterci scambiare materiali tecnici, idee, artisti. Da un lato le realtà piccole o appena nate sarebbero state così aiutate nelle proprie esigenze quotidiane e di sopravvivenza artistica, dall’altro da esse quelle più “storiche” e spesso “ingessate” avrebbero tratto nuove idee creative, nuovi slanci per percorsi artistici innovativi. Fu già da allora che cominciammo ad organizzare a Formia il festival.
La cosa funzionò per alcuni anni. Io stesso misi a disposizione di tutti la cifra di 30 mila euro ricevuti dalle istituzioni. Ma nel 2008 il cambio della Giunta Comunale segnò una brusca inversione di rotta, con atteggiamenti dichiaratamente ostili nei nostri confronti, cosa che finì anche con denunce e che perdurò fino al 2011. Da quel momento in poi cercammo di risollevarci, anche se nel corso di questi anni, anche in presenza delle condizioni più avverse, non abbiamo mai rinunciato alla tappa del Festival, oggi alla sua dodicesima edizione.
Perchè oggi il Festival ? Cosa è mutato?
Oggi quella stessa urgenza di apertura ci porta ad allargare i confini oltre il Mediterraneo, nel confronto scambio con linguaggi internazionali, oltre la chiusura dei nostri confini che ci stanno stretti, una chiamata tanto più urgente quanto strettamente legata agli avvenimenti terribili cui quotidianamente assistiamo proprio intorno al Mediterraneo.
A chi è rivolto il Festival e qual è l’obiettivo?
Il festival è rivolto agli artisti che forse oggi rappresentano gli unici che, con il proprio lato visionario e la propria sensibilità possono farci uscire da questo tunnel di morte e di distruzione, possono indicarci strade diverse, è un appello a tutti gli artisti, non solo agli attori ma ai musicisti, ai pittori a quanti si dedicano all’arte. E’ evidente che l’obiettivo è strettamente legato alla dimensione sociale e quindi politica, nel tracciare un percorso possibile non solo di convivenza interculturale e di rispetto reciproco, ma anche di scambio costruttivo nella messa in comune delle reciproche competenze perchè è solo dalla reciproca conoscenza che si sconfigge la paura.
Emanuela Dal Pozzo