“Accetta quello che ti capita, anche se sei competente e bravo, o morirai di fame”, “se va male posso sempre…”, “e se ti lamenti sei uno schizzinoso”, “vuoi un diritto? Paga”, “fattela una risata”, “e non lamentarti perchè ti stiamo facendo un favore”, “è quel che c’è e ringrazia perchè c’è”, “è che siete una generazione non abituata a lavorare”, “comportati molto bene e potrai progredire”, “non ti paghiamo l’articolo ma hai visibilità”, “risparmia, licenzia, esternalizza”.
Arrivata all’ultima pagina di “Schiavi di un Dio minore” di Loredana Lipperini e Giovanni Arduino (Utent, 2016) mi rimbomba dentro: solo un patchwork di frasi che da buona 27enne laureata (in lettere? E che speri di fare?) con un patentino da giornalista pubblicista nel portafoglio (tra i 40.534 precari) e teatri come ufficio (e che ci vuole a mandare qualche e-mail ai giornali e a creare un evento su fb?) mi sento ripetere quasi ogni giorno.
Chiudo il libro e mi viene solo da dire: “ma quanto è vero?”. (“Gli schiavi letterari dei nostri giorni si sanno raccontare ma non sanno come uscirne” ).
Forse è per questo che è così difficile scrivere questa “recensione”. Perchè in quelle parole scritte su carta stampata, così ben composta, quei racconti così ben narrati mettono semplicemente nero su bianco la verità che non vogliamo vedere, che si è persa sotto il tappeto insieme a quel sogno che ormai ci vergogniamo anche di condividere, perchè, presi da “quello che ci passa il convento” siamo abituati ad accontentarci, al fluire del “tanto non cambia”. Allora che sogno è?
Tra le biografie, i racconti, gli estratti rivedi gli sfoghi dei tuoi compagni di università, le confessioni dell’inquilino al piano superiore, le lotte di tuo padre, le frustrazioni di tua madre, le rughe d’espressione dei pendolari sull’autobus capaci di raccontare quanto gli anelli degli alberi. Macini le parole condividendo ogni pensiero e la lucidità dell’analisi.
Così dal precariato siamo arrivati allo schiavismo. I nuovi schiavi si chiamano Paola, Shila, Yu, sono a Dacca come in Puglia come in Cina, negli stabilimenti di Amazon come da Mc Donald, da Eatitaly come on line su freelancer.com, con un braccialetto elettronico al polso, con ritmi robotici, schiavi digitali, ingranaggi, declassamenti, suicidi. Sfruttati che diventano sfruttatori, solo doveri senza diritti, il più furbo va avanti e il più appassionato può anche svendersi. Così il lavoro si è svuotato di senso, tanto sudato, ambito, cercato ma altrettanto svilito.
“Schiavi di un Dio minore” non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è un saggio. E’ la realtà che diventa storia, attendibile e accurata ma senza elenchi infiniti di numeri. C’è la Cronaca ma senza le percentuali ed i grafici. Sono le persone a diventare letteratura, senza la domanda e la risposta ma il fluire della narrazione.
Nel frullatore di storie, di prodotti, di pubblicità, di slogan, nella società di cartone e di facce di plastica alla ricerca del “più” e della convenienza, abbiamo perso il valore della consapevolezza. Non conosciamo, non ci importa conoscere, ci piace dimenticare.
“L’avvoltoio è la nostra inconsapevolezza, quella che ci divora il cuore, quella che scambia lavoro con schiavismo”.
Tutti dovremmo essere “i viaggiatori del mattino” che scrutano, osservano, analizzano, pensano e raccontano. “C’è sempre un’altra corsa. L’unica domanda è: quale? E soprattutto a quale costo? Fermati e chieditelo anche tu, anche solo una volta, per favore”.
Simona Gionta