Lo spettacolo “Ero”, di e con Cesar Brie che ne firma anche la regia, apre al Teatro Comunale di Mori Gustavo Modena, un gioiellino di teatro con meno di 100 posti a sedere in platea ma dotato di file di palchetti laterali, luogo che già di per sé invita all’intimità e a ridurre la distanza tra attore e spettatore, la rassegna “Rifrazioni Indipendenti”, incontri con alcuni dei maestri del teatro indipendente italiano .
Brie, uno di questi, scappato dall’Argentina al tempo della dittatura, tornato in Bolivia dove ha fondato la compagnia dei Los Andes e poi fuggito di nuovo in Italia dopo aver appoggiato la rivolta dei Peones sudamericani, è uno dei massimi testimoni di un periodo fertile di teatro di ricerca in Italia e non solo, una ricerca che, iniziata negli anni ’70 sotto la guida di Eugenio Barba con l’Odin Teatret, prosegue a tutt’oggi.
Alcuni spettatori sono seduti anche sul palcoscenico, intorno alla scena che si svolgerà, perchè, spiega Brie, lo spettacolo è pensato per spazi non teatrali, con un pubblico disposto tutt’intorno.
La scena è divisa in spazi, con stoffe, oggetti e vestiti, in una sorta di canovaccio predisposto, a significare diversità di tempi e di luoghi perchè, spiegherà sempre Brie nell’incontro con il pubblico a fine spettacolo, il teatro è un luogo evocativo, attraversato dal tempo, un luogo nel quale può succedere tutto, il luogo in cui “io parlo con l’aldilà”.
E gli oggetti, gli abiti, le stoffe verranno utilizzati dall’attore, in chiave simbolica o metaforica, subendo trasformazioni e azioni. In questa chiave la scelta degli oggetti in scena e la modalità del loro utilizzo spiega molto della poetica di questo autore e della sua cultura ricca di immagini e di fisicità e in cui gli oggetti diventano corpi animati di vita propria: “ Quando realizzo uno spettacolo difficilmente parto da un testo scritto a priori. Prima vengono le immagini, che nella reciproca relazione mi guidano, poi viene il resto, provando e improvvisando.”
La messa in scena ripercorre l’albero genealogico dell’attore che parla in prima persona, ricordando le origini della sua famiglia e riportando in vita le persone affettivamente importanti che lo hanno visto crescere, con particolare attenzione per le figure femminili, ad eccezione del padre, morto giovane. E’ un racconto intenso fatto da un vecchio in dialogo con la propria parte infantile, un dialogo a tratti conflittuale: Brie mette il bimbo in una bara, lo vuole seppellire in un desiderio di andare oltre, poi ci ripensa e dorme accanto a lui mano nella mano. “ Il bambino che c’è in noi ci accompagna per tutta la vita. Quando osservo i vecchi che giocano a carte mi accorgo che sono tornati bambini, completamente concentrati nel gioco. Se neghiamo la nostra parte infantile ci rimane il rancore, che sa di rancido, andato a male” commenterà poi.
Lo spettacolo tocca il tema della memoria, la nostra memoria individuale, di quando inizia e quando termina: noi muoriamo veramente quando più nessuno si ricorda di noi; ma tocca anche il tema dell’amore, il filtro che ci permette di far vivere le cose e le persone, capace di superare le barriere, anche quelle che sembrano invalicabili: quando due persone si amano il mondo si inchina.
Il tema dei bambini, già fortemente presente nello spettacolo “karamazov”, ( non è un caso che il bel burattino di Tiziano Fario, presente in quello spettacolo sia utilizzato a segnare una continuità) è un tema sentito da Brie, una sorta di necessità di passaggio di testimone, di sguardo in prospettiva, di affido di speranza, di consapevolezza di evoluzione, di amore e attenzione per la crescita delle cose buone che diventeranno il nostro futuro.
Lo spettacolo conclude con qualche stoccata e autocritica: il narcisismo degli attori, la crisi d’identità dei critici, certo snobismo degli spettatori, il desiderio di onnipotenza degli assessori e dei padroni della cultura.
“Sentivo la necessità di fare questo spettacolo” confesserà poi “per riuscire ad esternare le mie emozioni, i miei sentimenti e i miei pensieri. Il teatro ha anche questa funzione liberatoria.”
Qualcuno gli chiede se lo spettacolo è la sua esatta autobiografia. Brie lascia nel dubbio. In realtà, spiegherà, ho cercato di raccontare quello che accade nella maggioranza dei casi, avvalendomi di interviste, conversazioni libere e spesso stupendomi delle risposte. Ho visto che quando si parla di grandi temi come l’amore si tende a concettualizzare con astrazioni che poco hanno a che fare con il reale, ho cercato un linguaggio concreto, semplice, che ci tocca direttamente. “Dietro parole come amore, morte, assenza, dolore, gioia, si celano vicende personali, volti precisi, piccoli disagi, rimpianti sbiaditi, eventi apparentemente infimi che hanno segnato la nostra esistenza.”
Ma il senso più profondo di questo spettacolo penso sia affidato a queste parole: “A ognuno di noi è data la possibilità di tornare dall’esilio, di aprire la porta della nostra casa. A ognuno di noi è data la possibilità di non rimanere accecati dalla luce dell’annunciazione.”, una sottolineatura dell’importanza del ricordare oggi quanto mai attuale e probabilmente unica possibilità di riscatto.
Un bel lavoro partecipato e convincente, apprezzato dal numeroso pubblico che riempiva il teatro.
Emanuela Dal Pozzo