“ QUESTA SONO IO “AL TEATRO PORTLAND DI TRENTO. RECENSIONE.

questasonoio3Questa sono io”, prodotto da Teatro Libero Liberi Teatri e tratto dal romanzo di Federico Guerri e interpretato dalla brava Monica Faggiani, spettacolo multifaccia e multimediale, in scena il 10 febbraio 2017, per la regia di Alessandro Castellucci e l’adattamento di Corrado d’Elia, apre a Trento la nuova stagione di Portland Teatro, ma anche una serie di interrogativi che toccano una pluralità di aspetti.

Al centro dello spettacolo una donna avvenente e di successo mediatico che, dopo avere cavalcato i clichè più scontati: i concorsi di bellezza, le occasioni fortuite, le conoscenze strategiche, si svela inizialmente davanti alle telecamere nel corso di un’intervista televisiva, mostrando di sé ciò che il pubblico vuole vedere, “ la donna della porta accanto”, dalla faccia pulita e dall’animo semplice, leggera quanto basta per suscitare simpatia, mentalmente “defilata” da risultare inoffensiva.

La situazione repentinamente cambia e la donna racconta un’altra verità, ripercorrendo le stesse tappe della propria storia, svelando retroscena raccapriccianti e la reale natura dei rapporti con le persone prima citate, dalle quali è stata sfruttata, usata, ricattata e comprata e svelando così la crudezza della vita e il prezzo pagato per il proprio successo.

La situazione cambia nuovamente e la donna racconta la propria terza verità: non è lei ad essere stata usata al contrario, approfittando delle debolezze degli uomini le ha utilizzate ai propri fini per arrivare ai propri scopi, affinando la propria cultura ed intelligenza e “vincendoli” con le stesse armi.

Sembrerebbe un riscatto “ femminile”, una vendetta premeditata e dovuta, una sorta di liberazione dal giogo maschile, non fosse che questa riscossa non ha i connotati della gioia della vittoria, piuttosto il veleno della rabbia.

Lo spettacolo, apparentemente sorprendente per il ribaltarsi di “verità” che soggiacciono al racconto iniziale, di fatto non cambia mai davvero il proprio parziale punto di vista. Ciò che al contrario accomuna le tre versioni di “verità” antitetiche è l’assenza di ogni sentimento o emozione partecipata, versioni che quindi si rivelano come tre formule razionali che non fanno che riproporre costruzioni stereotipate di una realtà cruda sì ma “bidimensionale”.

Senza nulla togliere alla professionalità e al rigore dell’attrice, che conduce questa scelta fino in fondo, e che interpreta con grande padronanza le diverse anime del proprio personaggio, non ci si può non chiedere se questa scelta di contenuto così radicale ed amara, ma anche sostanzialmente superficiale, non sia il frutto di una generazione che si sente alla deriva, senza alcuna prospettiva di cambiamento, ma che probabilmente non ha nemmeno voglia di allargare lo sguardo, oppure se non sia il “mercato” teatrale che induce all’utilizzo di contenuti o codici sempre all’eccesso, più atti a stupire che ad approfondire, o infine se non sia un rapporto con l’arte o il teatro che oggi si ridefinisce più entro un quadro fotografico del reale per sommi capi, che non in una sua rielaborazione in chiave creativa, preferendo quindi le soluzioni di immediata comprensione e di presa diretta, sacrificando le sfaccettature del contorno che forse ci aiuterebbero maggiormente ad interpretarne l’ossatura.

Forse la poesia non dovrebbe mancare nemmeno nella più profonda disperazione. Forse c’è disperato bisogno di poesia anche quando il mondo sembra cadere a pezzi.

Diversi minuti di applausi a fine spettacolo, miei compresi, tutti dedicati all’attrice sostenuta dall’efficace gioco di luci e da una regia essenziale.

Emanuela Dal Pozzo

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