“LA BASTARDA DI ISTAMBUL” AL CAMPLOY DI VERONA. RECENSIONE

La bastarda di Istanbul_3-1Il romanzo “La bastarda di Istambul” di Eli Shafak, considerata tra gli esponenti più autorevoli della letteratura contemporanea turca, ha toccato record di vendite nel suo paese, oltre ad essere stato tradotto in più di trenta lingue nel mondo. Tema centrale è il genocidio armeno, peso tuttora non esorcizzato né metabolizzato dalla coscienza collettiva turca. Nel romanzo, si invera in una complessa saga familiare dalle molte componenti etniche, con legami che da Istambul arrivano fino in Arizona, oltre ad intrecciarsi tra Armenia e Turchia. Dal romanzo di Elik Shafak, tradotto per Rizzoli da Laura Prandino, il regista Angelo Savelli ha tratto l’omonimo spettacolo, prodotto da Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi, che sta girando con successo da tre anni e ora giunto al Teatro Camploy di Verona nell’ambito della rassegna “L’altro teatro”, organizzata dal Comune scaligero in collaborazione con Arteven, con Ersilia Cooperativa e con EXP.

L’allestimento presenta il grande fascino delle coloratissime video-scenografie di Giuseppe Ragazzini – un po’ genere cartolina illustrata, un po’ di gusto naïf, un po’ ispirate ai libri per l’infanzia – di fagocitante cinematografica tridimensionalità e completate con pochi ed essenziali elementi di scena cambiati a vista. Appropriati, inoltre, i costumi di Serena Sarti e le luci di Alfredo Piras. Altro elemento di pregio, l’interpretazione — che stempera il pathos nello humour, satira e ironia — delle ottime attrici, ben caratterizzanti i rispettivi ruoli. Le “figlie” Fiorella Sciarretta, Monica Bauco, Valentina Chico con Serra Yilmaz, tra le attrici preferite del regista Ozpetek; la “madre” Marcella Ermini; la “bastarda” Diletta Oculisti; le “parenti” americane Monica Bauco (in doppio ruolo) e Elisa Vitiello; e, unico maschio della famiglia, Riccardo Naldini.

Meno felice ci è sembrata, invece, la componente drammaturgica. Prolissa e ripetitiva (lo spettacolo dura circa tre ore) è spesso appesantita da una didattica esplicativa utile ma piattamente incolore, mentre disperde in calligrafismo i non pochi spunti a disposizione che potrebbero aprirsi ad un approccio di più ampio e incisivo respiro.

Teatro pressoché esaurito e calorosamente plaudente.

Franca Barbuggiani

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