Lo spettacolo di e con Danio Manfredini “ Tre studi per una crocifissione”, pur datato 1992, fa il tutto esaurito al Camploy di Verona il 17 marzo 2017 , un pubblico scelto peraltro, tra appassionati, addetti ai lavori e chi segue quel teatro di ricerca che sembra sempre arrivare con fatica in città, non fosse per questa rassegna, “ L’altro Teatro”, dedicata ad un circuito di nicchia con nomi meno noti al grande pubblico veronese, quasi unica possibilità di assaggio di un mondo teatrale vivo (probabilmente lo era di più in anni passati), impegnato sul fronte dei contenuti e capace di sperimentare oltre clichè consolidati e spesso preconfezionati, clichè così cari sembrerebbe alle distribuzioni dei grandi teatri e che sembrano segnare uno spartiacque di gusto anche di pubblico.
Vero che lo spessore dell’ artista in questione, punta di diamante del teatro di ricerca, con al seguito diversi premi Ubu e riconoscimenti critici unanimi, non lo rendono più tanto di nicchia, complice in questo caso anche uno spettacolo come questo il cui numero di repliche in questi anni deve avere allargato il bacino di spettatori, creando probabilmente maggiori consensi oggi piuttosto che ieri, visti i temi affrontati.
Si parla infatti, come spesso negli spettacoli di Manfredini, di diversità, di disagio sociale, di soggetti border line che si interrogano sulla vita e la morte, di derelitti ai margini, di estromessi dal contesto sociale, di solitudini sovrapponibili, di uomini in crisi interiore e d’identità, che sembrano trovare un senso e forse una più chiara collocazione nel mondo nel momento in cui si denudano facendo emergere le proprie debolezze, quando esternano la propria individuale e incolmabile solitudine in cerca di una pace spirituale, metafisica, in comunione con un Dio salvifico, cercato ed assente.
Se oggi le tematiche affrontate nello spettacolo sembrano pertinenti, note, ampiamente presenti in una letteratura ricca ed articolata, motivata da un acuirsi di sensibilità verso il diverso, amplificata da tutte le varie campagne di sensibilizzazione che si sono poi ripercosse anche in ambito artistico e teatrale con effetti a volte discutibili, ( da un teatro reality con utilizzo di disabili reali in scena che danno adito a riflessioni etiche, ad un teatro dai facili clichè finalizzato al largo consenso o all’accaparramento dei sovvenzionamenti ad hoc), dai flussi migratori con le conseguenze della loro integrazione , della salvaguardia delle specifiche culture e del dibattito politico in corso, dalle manifestazioni per l’accettazione dell’identità sessuale e l’attuale dibattito sui transgender, c’è da chiedersi quale enorme impatto possa avere avuto al momento del suo debutto, appena agli albori di tutte quelle criticità sociali di cui oggi siamo testimoni e quanto fosse stato pronto il pubblico a recepirne allora il senso.
Lo spettacolo a tutt’oggi appare forte, dirompente, scevro di banalità.
Tre sono i personaggi che emergono dal buio alla penombra, a sottolineare il loro essere a margine, in una scenografia scarna, essenziale e necessaria: un piccolo crocifisso appeso sullo sfondo, due diagonali che si intersecano, un’altra croce, al posto del sipario.
Alcune sedie e un tavolino permettono al primo personaggio di parlare della propria insanità mentale, di ripercorrere zone d’ombra di memoria, di interagire con le sfaccettature della propria personalità: sedie vuote che sottolineano lo stato di solitudine in cui specchiarsi, ma anche la possibilità di interazione con i diversi aspetti della propria personalità, che si racconta, viva nel ricordo, al contempo inutile perchè incapace di uscire dalla propria prigione e il cui unico contatto esterno pare essere una tv portatile accesa.
Il secondo personaggio è un trans, ispirato ai personaggi di Fassbinder, dall’identità fragile, frutto di ripensamenti, di scelte quasi casuali od occasionali, diventato donna per amore ma inutilmente, tradito quindi nell’amore ma anche dalla vita che con una scelta d’identità diversa gli avrebbe offerto altre possibilità, sospeso tra depressione e speranza in un dialogo fantastico con la madre morta, incapace di scelte risolutive: anche il suicidio che sembra tentare pare poco convinto.
Il terzo è un immigrato, assolutamente solo sotto la pioggia, alla disperata ricerca di un contatto umano e le cui aspirazioni di normalità cozzano contro l’inevitabile incontro con la piccola delinquenza che gli tolgono quel poco che possiede.
Il linguaggio scenico utilizzato dall’attore è fondamentalmente fisico. La parola si appoggia ed ha senso solo in relazione alla postura e alla camminata specifica di ogni personaggio: una modalità di lavoro che richiede estrema attenzione al dettaglio, in cui nulla viene lasciato al caso, un lavoro minuzioso di espressione ed espressività e in cui la parola si pone come uno dei tanti segni che caratterizza ogni personaggio, mentre il suo significato offre un quadro interpretativo dell’insieme.
Ma c’è qualcosa di più in questo lavoro oltre la padronanza tecnica, lo spessore registico, la cura scenografica, la sapienza delle luci e l’intimismo delle musiche: una sorta di sublimazione che va oltre i confini del singolo personaggio e che li cattura in un’atmosfera atemporale catartica in dialogo con l’infinito, qualità rara in teatro e in arte, possiamo dire oggi particolarmente introvabile e che fa la differenza tra un attore e un artista.
Diversi minuti di applausi meritatissimi.
Emanuela Dal Pozzo