“ANELANTE” CHIUDE LA RASSEGNA “L’ALTRO TEATRO” AL CAMPLOY DI VERONA. RECENSIONE

rezzaTutto e il contrario di tutto: ovverossia il nulla. Questo il messaggio nichilista veicolato in chiave ironica — e molto anche autoironica – nello spettacolo “Anelante” (visto al Teatro Camploy di Verona nell’ambito della rassegna “L’altro teatro”, organizzata dal Comune scaligero in collaborazione con Arteven, con Ersilia Cooperativa e con EXP, e prodotto da RezzaMastrella, dalla Fondazione TPE e dalla Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello) da un autentico animale da palcoscenico quale il poliedrico Antonio Rezza, scrittore, attore, regista teatrale e cinematografico, dimostra da decenni di essere. Insieme con Flavia Mastrella, anche con l’imprimatur di prestigiosi riconoscimenti culminati nel 2013 con l’assegnazione del Premio Hystrio e del Premio Ubu.

Nulla si salva: scienza (con le sue varie e spesso antitetiche scuole di pensiero), famiglia (destrutturata da Sigmund Freud); scuola, politica e sindacati; libri e teatro; sesso e fisicità; religione… Tutto si frantuma al vaglio dello sbeffeggiante tritacarne di un iconoclasta mimo/affabulatore che, in età già saldamente veleggiante tra le diverse declinazioni degli “anta”, tutt’ora salta come un grillo; in una dimensione attorale che, nello specifico, assume l’iconica universalità della maschera. In un’inedita contaminazione e moderna riappropriazione della antica eredità, tutta italica, di satira e Commedia dell’Arte.

L’habitat (come vengono definite le colorate e bidimensionali componenti scenografiche mobili, componibili e scomponibili) di Flavia Mastrella, valorizzato dalle luci di Mattia Vigo, ci è sembrato del pari evocativo di moderni informatici schermi TV e PC e – forse sotto l’influenza di nostre nostalgiche memorie — di antiche “baracche” del glorioso teatro dei burattini; individuando così un’ulteriore interessante contaminazione tra tempi diversi e diverse funzioni, in un ideale ponte tra le secolari teste di legno e i moderni aspiranti all’effimera visibilità informatica.

E’ questo il contesto in cui agiscono e – parcamente – recitano, a contorno, i bravi Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, con qualche incursione sul palcoscenico, appannaggio pressoché assoluto di Antonio Rezza.

Quello di Rezza è un interminabile e sostanzialmente ininterrotto monologo dove, tra il “nonsense” che fa da padrone, si colgono momenti di gramelot e di ricerca su alcune delle molte possibilità foniche della voce. Ma, soprattutto, Rezza vuole interloquire con il pubblico; o, meglio, provocarlo senza consentirgli alcun diritto di replica. Così, pure, invoca perentoriamente di chiudere le porte del teatro, quando qualche incauto spettatore si permette di avviarsi verso l’uscita con tempistica non di suo gradimento. L’apoteosi, comunque, del peculiare rapporto di Rezza con il pubblico e iperbolico clou dello spettacolo ci pare di averlo colto nella esposizione in bellavista di pingui fondischiena, occhieggianti dai pertugi dell’habitat, equiparati a protagonisti di un magistrale quanto insolito “concertato”.

Il pubblico del “tutto esaurito” ride e applaude.

Franca Barbuggiani

 

RIFLESSIONI POST SPETTACOLO

C’è da interrogarsi sul senso di fare teatro oggi, sul senso di chi lo fa e di chi lo guarda, sulle motivazioni, i contenuti e il rapporto tra attore e palcoscenico ed attore e spettatore.

C’è forse anche da interrogarsi sui confini ( se oggi esistono) di ciò che possa definirsi teatro. Le definizioni cambiano nel corso del tempo, sollecitate dai cambiamenti sociali e mai forse come oggi ha senso parlare non di “teatro” ma di “teatri”, in una poliedricità di proposte che sembrano contraddirsi l’una con l’altra, in una passerella di sperimentazioni in cui succede tutto e il contrario di tutto. Ed in questo calderone vi è posto tanto per le legittime e oneste “ricerche” di stili, linguaggi, originalità di percorso ( rari), quanto per le “furbate” ammiccanti, solo in apparenza trasgressive, che fanno audience o cassa. Sembra di assistere ad una corsa allo scandalo, al gossip , allo stupire il publico a tutti i costi tanto da far pensare che sia in gioco più il galleggiamento di una Compagnia in concorrenza tra le tante piuttosto che lo spessore dei contenuti che ci piacerebbe invece fosse la motivazione prima di uno spettacolo. Cos’è che muove veramente la nascita di uno spettacolo teatrale? L’Attore/ autore quale pensa sia la sua funzione, ammesso e non concesso che esista ancora una funzione sociale del teatro, attenta alla realtà attuale e capace di leggerla, interpretarla offrendo chiavi di lettura originali o quanto meno frutto di riflessioni personali?

E’ una domanda cardine che riguarda oggi non solo il teatro ma la funzione dell’arte in sé e che si traduce in modo immediato sul rapporto con lo spettatore.

Cosa è oggi l’empatia e soprattutto quali sono le “scorciatoie” più o meno lecite che l’attore imbocca per arrivare alla mente e al cuore dello spettatore? Esiste un limite al potere di un attore in scena, o in virtù di un microfono e di un prezzo di biglietto pagato che indica con precisione il rapporto di forze ( tu spettatore paghi per vedere me attore) l’attore è libero di insultare, provocare, deridere lo spettatore fino al punto di volerlo inchiodare alla sedia chiedendo la chiusura delle porte del teatro? Provocazione certo, ma perchè? Autorizzata da chi?

Emanuela Dal Pozzo

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