Che il teatro sia diventato un bene di consumo, a prescindere dal consumo parco che ne fa il pubblico, sembra piuttosto evidente. Ciò che qualche tempo fa sembrava un settore di nicchia con pretese culturali, oggi è prodotto commerciale dilagante, più o meno bene confezionato, in una proliferazione di proposte tese a contendersi i pochi affezionati, perchè è evidente di come l’offerta superi di gran lunga la richiesta. E allora, come in questi casi succede, ecco scatenarsi la gara tra le Compagnie, che non può non essere di qualità se non in casi eccezionali, quando i mezzi economici garantiscono un tempo sufficiente di lavoro, quando si è noti e perciò sostenuti da Enti e istituzioni, nonché da critici disponibili e favorevoli. Ma anche in questi casi parliamo di possibilità: le scorciatoie per ottenere l’audience sono trappole praticate.
Nella maggior parte dei casi la quantità sembra essere più importante della qualità: bisogna produrre e vendere per potere sopravvivere e se la qualità scarseggia come si può essere competitivi nel mercato e attrarre quei già pochi clienti che affollano i teatri? Ecco che allora ci si concentra sulle mode, sui leit motiv del periodo, sui temi più dibattuti del momento. I telegiornali raccontano dei femminicidi? C’è in atto una polemica politica sui transgender? Il disagio sociale è al centro dell’attenzione generale? Ecco subito levarsi dal mondo del teatro una produzione massiccia sugli stessi temi. Poichè la qualità non è importante e nemmeno oggi necessaria per fortuna degli artisti, basta il tema a richiamare l’attenzione. Che poi lo sviluppo dello spettacolo sia un copia e incolla dalla realtà, non preveda analisi o riflessioni né in chiave di contenuti né in chiave di linguaggio teatrale, poco importa. L’importante è trattare quel tema perchè questo darà automaticamente accesso alla visibilità, muoverà la “sensibilità” della gente, renderà “impegnato” ciò che di fatto non lo è, alluderà ad un arrosto ( che non c’è) solo per il fatto di vederne il fumo. E’ come quando, giustamente un critico diceva, si spaccia per teatro a scuola spettacoli che parlino di “raccolta differenziata” o di “acqua quale bene comune”: temi importanti certo, ma che non possono giustificare il teatro se non ci si addentra anche nei suoi linguaggi specifici espressivi ( senza poi volere entrare in più sottili manipolazioni commerciali che rendono culturale uno spettacolo pubblicitario sulle “ caramelle balsamiche” o sul valore della “pasta” con Kit e prodotti da offrire a scuola al seguito) .
E allora paradossalmente, in questa molteplicità di proposte, diventa davvero difficile scegliere, per quanti abbiano ancora una concezione di teatro oltre il suo consumo spicciolo e non è difficile comprendere la disaffezione dello spettatore intelligente, che vorrebbe invece interagire alla pari con l’attore, almeno mentalmente, piuttosto che subirne passivamente stereotipi e manie di grandezza.
Emanuela Dal Pozzo