La spettacolarità insita nello spazio areniano, nutrita dalla popolarità di cui il melodramma godeva un tempo, è ancor oggi motore principale per ogni allestimento, anche se si spera oggi non l’unico polo attrattivo.
Molte le letture possibili quindi anche in questa chiave e quella presentata in occasione delle celebrazioni per il centenario del 2013 con l’allestimento di “Aida” da parte di Carlus Padrissa e Àlex Ollé/La Fura dels Baus” si pone dal mio punto di vista come una delle più vincenti e, ad oggi, significative.
La regia, partendo dallo spazio fisico areniano, ne costruisce una cornice diversa, inquadrando il libretto di Ghislanzoni in una dimensione in cui forma e prospettiva intese in senso tradizionale vengono a perdersi.
Nulla è come dovrebbe essere. Animali, vegetazione e danze vengono reinterpretati dai visionari de “La Fura” che, pur mantenendo ben saldo il nucleo narrativo, sembrano giocare attraverso le dune di un ricordo che il tempo ha logorato e standardizzato: gli animali diventano giochi meccanici o antropomorfi (coccodrilli) e gli stessi elementi naturali ( palme) assumono reazioni e movimenti umani. Il panorama cambia. L’uomo ne costruisce un altro. La grande valva diviene sepolcro agli amanti, giocando con l’enorme palcoscenico; gli spazi attraverso la rappresentazione dei quattro elementi (terra, fuoco, aria, acqua ) in diverse forme e modalità ci raccontano destando in noi la “maraviglia”, spiazzandoci. Un’ “Aida” diversa dunque,, che stimola nello spettatore curiosità e sconcerto, non lasciandolo pigramente adagiato nella sua poltroncina, o meglio, gradone.
Altalenante nella prestazione il cast impegnato in palcoscenico.
Il soprano Sae-Kyung Rim non convinceva appieno nel ruolo del titolo a causa di un timbro non particolarmente omogeneo e ad una tecnica che poco la sosteneva attraverso le insidie della partitura. Aida è personaggio sostanzialmente semplice nella sua espressività ma vocalmente attentamente cesellato da Verdi, in partitura dunque la centralità data alla parola ed al verso deve essere sempre e comunque al centro di ogni sua interpretazione e la vocalità deve potersi piegare ai colori ed alle sfumature richieste con maggior sicurezza tecnica.
Molto interessante il personaggio di Radames tratteggiato dal tenore Yusif Eyvazov.
L’artista non possiede un strumento particolarmente smagliante nel timbro pur tuttavia lo sa usare con intelligenza, dosando la sua tecnica con sapiente misura. Così il ‘carattere’ risulta sostanzialmente ben dominato vocalmente e accuratamente cesellato sotto il profilo di espressività e fraseggio. Più amante che guerriero, il suo Radames emerge così felicemente con tutte le sue sfumature a prova di una professionalità misurata e, speriamo, in costante crescita.
Non così per l’Amneris tratteggiata da Anastasia Boldyreva che, pur possedendo un’interessante vocalità, risultava poco attenta all’espressività di un personaggio centrale e complesso quale quello di Amneris.
Monocorde anche l‘Amonasro interpretato da Boris Statsenko che risolveva con la sua tonante e piatta vocalità.
Ottimo Giorgio Giuseppini quale Ramfis sia per il timbro, morbido rotondo e sapientemente controllato, che per un’espressiva e sobria musicalità, costantemente presente.
Completavano il cast: Deyan Vatchkov (Il Re), Antonello Ceron (un messaggero) e Marina Ogii (sacerdotessa).
Priva di mordente la direzione del M° Julian Kovatchev alla guida dell’orchestra areniana mentre ottimo il Coro diretto dal M°Vito Lombardi.
Un’arena non gremitissima ma applausi entusiasti e convinti al termine per tutti gli artisti, a testimonianza di un’attenzione crescente verso un diverso modo di fare opera che, anche in arena, può e dovrebbe trovare spazio.
Verona.09/07/2017
Silvia Campana