Per meglio inquadrare alcune critiche che dal giornale vengono mosse, e non solo alle produzioni artistiche ma anche a chi di teatro si occupa nel segnalare e promuovere, ci sembra doveroso focalizzare i criteri che adottiamo quando giudichiamo uno spettacolo e in particolare gli aspetti che riteniamo chiave nella sua buona riuscita.
Potrebbero sembrare cose scontate per chi si occupa di teatro e ne scrive e ci scusiamo per questa sorta di “manuale didattico”, ma abbiamo pensato che sia un atto doveroso ed eticamente corretto da parte nostra, e che le nostre posizioni potrebbero essere non così ovvie, considerazione che nasce dopo la lettura di recensioni, sottolineature, promozioni, premi che sembrano non convergere con le nostre linee guida.
Riteniamo che siano molti gli elementi che concorrano alla buona riuscita di uno spettacolo e che ciascuno di essi meriti un’attenta valutazione. Riteniamo inoltre che il collante sia la regia e che la tensione del lavoro di regia sia quello di dimostrare come il risultato finale sia qualcosa di più della somma delle singole parti: interpretazione, musica, luci, drammaturgia, capacità comunicativa ed empatica. Perché riteniamo che l’apice si tocchi quando il teatro diventa atto coraggioso e poetico, capace di svelare verità, ben diverso da quel “naturalismo” che rappresenta la superficie delle cose imitando la realtà, nemico del teatro.
Non condividiamo perciò che uno spettacolo possa essere “premiabile” per uno solo degli elementi che lo compongono, a meno che in quell’elemento non si riscontri una eccezionalità ulteriore dopo l’assolvimento di tutte le altre componenti. In altre parole dal nostro punto di vista non ha alcun senso premiare “l’idea” indipendentemente dalla sua realizzazione, o il testo, se poi non ci sono i requisiti minimi interpretativi che lo traducano in azione scenica e così via, mentre è certamente doveroso metterli in luce nell’analisi di una recensione.
Il premio “settoriale” in teatro dal nostro punto di vista non ha senso né come incoraggiamento al lavoro artistico ( invece che spingere all’approfondimento, si agevola un risultato facile) né come operazione culturale ( il premio viene segnalato, senza le dovute precisazioni, anche dopo magari una messa in scena discutibile), ma solo come operazione di mercato, agevolando la circuitazione di alcuni a scapito di altri. Perché si sa che spesso sono più i premi citati che le visioni degli spettacoli a determinare le scelte dei direttori artistici nel loro accoglimento in calendario, soprattutto quando non ci sono i tempi tecnici organizzativi per poterli visionare direttamente, con il risultato di creare una rosa di nomi- scelta obbligata che si impongono al mercato. Va da sé che si crea in questo modo una selezione tra chi avrà visibilità e ritorno economico e chi no. In pratica il non far parte della “rosa degli eletti”oggi può diventare una forma accettata di censura, visto che poi limita notevolmente alle compagnie la possibilità di esibirsi, e qualora il premio non fosse “trasparente” per i criteri adottati, ma piuttosto dipendente da “mode”, “tendenze”, “particolari format”, porterebbe a dubbi di simpatie o difesa di interessi di parte. “Mode, tendenze e format che non dovrebbero mai farci dimenticare qual è il lavoro dell’attore, la sua difficoltà e complessità e che attori non ci si improvvisa e che, per questa ragione, i ruoli dell’attore e dello spettatore, in dialettica tra loro, non possono essere interscambiabili.
Parallelamente vi è una miriade di premi e “premietti” più o meno autorevoli, con i criteri e le committenze più disparate, al punto che ci si chiede se nascano dall’esigenza di non escludere il tal o tal altro spettacolo dal circuito di mercato, o piuttosto dalla necessità di autoaffermazione di festival, critici , giornali o enti che di teatro si occupano.
Tornando ai nostri criteri di visione di uno spettacolo, noi riteniamo importante non perdere mai di vista l’interazione tra drammaturgia( non necessariamente di parola), regia, interpretazione, linguaggi scelti, capacità espressiva e comunicativa di uno spettacolo, perché se non lo facessimo, rinunceremmo alla complessità che è la caratteristica più importante e più interessante di una messa in scena e la ridurremmo ad una semplice “esercitazione” di un testo, di uno stile, di un linguaggio, che sono fondamentali durante il lavoro di preparazione, ma che non possono coincidere con l’esito di un lavoro.
Per la stessa ragione non ci convince di norma la messa in scena di uno studio/processo proposto come spettacolo, a meno che non sia una sorta di “ prova aperta”di confronto, passaggio ritenuto necessario per la costruzione dello spettacolo che dovrebbe prevedere una ulteriore fase di rielaborazione per dirsi tale.
Constatiamo inoltre che alcune performance, proposte oggi sotto forma di “novità” e di spettacolo, assomigliano molto ai training attoriali di tutto un fertile settore di ricerca a partire dagli anni ’70, che peraltro i nuovi protagonisti della scena spesso ignorano, nella mancanza di passaggio di testimone tra vecchie e nuove generazioni.
E’ interessante notare come oggi l’impoverimento generale culturale particolarmente giovanile ( è noto che si è persa la capacità di comprendere ad esempio frasi che non siano proposizioni semplici – soggetto, predicato, complemento) possa ipotizzare come conseguenza l’incapacità di tenere insieme più elementi. E come l’utilizzo massivo delle tecnologie, che comportano una costante attenzione ai dati del presente, unita ad una generale attitudine consumistica al pensare all’oggi e all’interesse immediato, possano portare a difficoltà di approccio in chiave cronologica: raramente esiste una lettura dialettica dell’esperienza- passato, presente, futuro, il che fa privilegiare il presente come unico dato di fatto su cui ragionare. C’è da chiedersi se “il nuovo”che avanza e si impone, anche in teatro, frutto creativo delle nuove generazioni, non debba essere letto come espressione di “difficoltà” piuttosto che “ illuminazione” e “folgorazione”, in visioni della vita e della realtà semplicistiche e prive di fondamenta, che privilegiano un risultato ad effetto piuttosto che il frutto di un percorso meditato, soprattutto quando le buone idee non vengono sostenute da quella interazione di linguaggi capace di restituire spessore e che sono ciò che la storia teatrale, nella declinazione dei diversi linguaggi, ci dovrebbe insegnare. Nè vale a giustificazione la necessità di sopravvivenza economica, che indurrebbe a velocizzare gli esiti, o i tempi ristretti per potere accedere ai bandi e ai relativi finanziamenti, che richiedono spesso materiali esigibili e certi, problematiche che peraltro andrebbero affrontate.
Il mantenere nel giudizio l’attenzione alla complessità ci salvaguarda inoltre da alcuni rischi come:
la strumentalizzazione in chiave politica quando ci si concentra solo sul testo che potrebbe diventare una sorta di manifesto di opinioni, sotto forma di ” slogan”, rispetto alle quali ci schieriamo più o meno a favore: che non significa che il teatro non debba parlare della realtà attuale, al contrario,( tutto il buon teatro lo fa, anche quello più classico); che lo spettacolo diventi un esercizio di stile, una esibizione di bravura personale che cade nell’egocentrismo autoreferenziale ( confondendo il mezzo con il fine); che lo spettacolo, dimenticando gli spettatori, rimanga chiuso in se stesso, sterile e impenetrabile; che in assenza di una regia efficace diventi una passerella più o meno riuscita di sensazioni, emozioni e immagini incapaci di offrire una o più chiavi di lettura unitarie.
Siamo però consapevoli che l’avere oggi ridotto la messa a fuoco ad una sola dimensione ( drammaturgia, linguaggio o analisi del contemporaneo immediato) anche per tutte le considerazioni sopra citate, abbia portato in alcuni casi ad approfondimenti di dettagli estremamente interessanti, ricerca che ci pare stimolante, fulcro di possibili nuove evoluzioni, se vista in un’ottica di trasformazione, processi evolutivi che ci interessano nel loro itinere, cui diamo però lo spazio della ricerca e della sperimentazione in fase di studio, non scambiando il processo con l’esito.
Emanuela Dal Pozzo