Non sappiamo se il veronese Otello Perazzoli sia realmente l’ultimo cantastorie rimasto a difendere la memoria di tradizioni, simbologie, canzoni e cultura proprie di quei “filò”che riunivano nella stalla durante la stagione invernale generazioni di contadini, ma certamente è oggi una delle voci soliste più potenti, e non solo musicalmente parlando, capace di ricostruire la ricchezza di quel mondo fatta di immagini, oggetti e concretezza.
Lo abbiamo ascoltato, piacevolmente stupiti, all’interessante appuntamento alla Biblioteca di Ferrara di Monte Baldo (Verona) in data 15 agosto, accompagnato dal suo organetto, in un’autentica esibizione da showman di navigata capacità affabulatoria, capace di dosare profondità e leggerezza, di “entrare” nei dettagli semantici di una cultura che oggi ci sembra lontana ma che fa parte delle nostre radici più profonde, di ricordarci i ritmi scanditi da quel calendario naturale obbligato legato alle semine, al raccolto e alle festività fatte di riti e ritorni: come “i morti” e “San Martino”, di approfondire i significati sottesi ai testi delle canzoni, svelamenti di tradizioni che oggi non ci appartengono più.
Perazzoli ha le idee molto chiare quando, introducendo le sue canzoni, afferma:
” Si dice che quando un vecchio muore si chiude una biblioteca. Pare un controsenso parlando di vecchi contadini di una volta, spesso analfabeti, eppure ricchi di una cultura vastissima fatta di una vita di saperi e di esperienza tramandate oralmente e perciò perse con la morte”.
Perchè Perazzoli, ex insegnante di lettere, non ha dubbi su cosa sia la cultura: “La cultura è tutto ciò che una persona sa e sa fare”e ugualmente segna uno spartiacque tra due tipi di culture: quella dei ricchi, cui siamo abituati, fatta di architetture, palazzi, mostre, ori e gioielli e quella dei “pitocchi” fatta degli oggetti di uso comune, di piccoli e grandi lavori artigianali nei quali convergono tutta l’originalità, la padronanza dei materiali, la conoscenza della tecnologia.
Così Otello Perazzoli, con il suo “cantare storie” sembra riproporre il “filò”, nell’identico modo in cui un tempo esso tramandava saperi e culture, fossero lavori agricoli o domestici o lezioni pedagogiche e di vita, attraverso le canzoni, le filastrocche e le storie frutto di un attento lavoro di ricerca tra le vecchie e ultime testimonianze dei protagonisti di un tempo, ricerca svolta in anni di lavoro e l’apporto di più persone, non ultima la formidabile e copiosa raccolta di Dino Coltro.
E lo fa con calore umano, coinvolgendo empaticamente il numeroso pubblico, fortunatamente di tutte le età.
Emanuela Dal Pozzo