Non posso che partire dalla fine. Perchè quando le luci si riaccendono sulla sala Fassbinder (gremita) dell’Elfo-Puccini di Milano, un bambino di dieci anni, accanto a me, dopo aver visto lo spettacolo “Frankenstein.Il racconto del mostro”, commenta: – Bello. Mi è sembrato di vedere davvero il mostro –.
Sì, è questa la sensazione che ci portiamo a casa, noi che abbiamo ascoltato per quasi un’ora e mezza la voce di Elio De Capitani che ci ha preso per mano, a volte delicatamente, guidandoci in sordina, a volte afferrandoci e obbligandoci a guardare.
Voglio sottolineare la durata di una performance che è stata come il tempo, vissuto e dilatato, di un lungo respiro della creatura, perché non è cosa scontata incontrarsi per ascoltare ottanta minuti di lettura di una storia, in un’epoca dove i tempi di attenzione di bambini e adulti si sono ridotti al massimo a poche decine di minuti.
Ma la mente è narratrice, ci ricorda Jonathan Gottschall nel suo saggio “L’istinto di narrare” e noi abbiamo bisogno di storie. Cresciamo e ci individuiamo nella storia e nelle storie della nostra famiglia e della comunità in cui viviamo, in cui, piano piano, inseriamo le nostre storie personali. Configuriamo i nostri ricordi in storie, in parte autentiche e in parte frutto inconsapevole e involontario della nostra fantasia, assegnando loro intrecci di eventi e una sequenza temporale che magari non possedevano. Mentre chiacchieriamo con uno sconosciuto o ci confidiamo con un amico, noi raccontiamo storie. Quando immaginiamo, quando speriamo un futuro, quando rimuginiamo su una figuraccia, creiamo storie. La nostra mente crea storie anche quando dormiamo, ed ecco i nostri sogni. Siamo circondati da storie, tanto fanno parte del nostro modo di stare nel mondo e di strutturare il mondo stesso. I mezzi di informazione ci raccontano delle storie; la pubblicità ci racconta delle storie, inventando personaggi e situazioni a cui (ahimè!) ci affezioniamo. Perché non sono soltanto i racconti biografici o autobiografici a interessarci e ad essere necessari, ma anche le storie di finzione.
Da quando ha sviluppato la parola, la nostra specie è passata dai primi racconti orali finalizzati al passaggio di informazioni, ai miti, alle fiabe, alle favole. Narrazioni che l’illuminismo ha poi screditato e che sono state progressivamente relegate alla sola fruizione dell’infanzia. Ma sono nate come storie per tutti, votate alla trasmissione di modi di vedere la vita, all’insegnamento morale, al prospettare la varietà dei rapporti umani, nel bene e nel male; avevano un preciso ruolo politico, ad esempio sbeffeggiando i potenti, lasciando intravedere possibilità di cambiamento o fornendo la catarsi di un momento di sfogo, di fantasiosa e irrealizzabile rivalsa.
Perché le storie non si limitano a intrattenerci ma ci guidano, ci influenzano; e qui dovrebbe entrare la responsabilità personale di recepirle criticamente, per valutarne l’intenzione.
In tutto questo, oggi lo strumento del video (non possiamo più parlare solo di cinema e televisione) continua con grande successo a raccontarci storie di finzione. Solo che questo mezzo ci presenta tutto del racconto, imponendoci i suoi tempi, togliendoci buona parte della fatica e dell’esercizio mentale di creare le nostre immagini delle situazioni e dei personaggi, di ascoltare dentro di noi le loro voci; tutte cose uniche se immaginate, perché ognuno le vede e le fa risuonare con le sue proiezioni, con il riverbero del proprio bagaglio di esperienze, del proprio modo di leggere e vivere le emozioni.
La narrazione invece lascia aperti quei vuoti che chi ascolta è portato a colmare con la propria fantasia: in teatro, davanti a De Capitani, si muovevano trecento creature del dott. Frankestein, in trecento diverse contrade di montagna, tante quanti eravamo convenuti per quell’incontro umano con lo straordinario potere dell’immaginazione. In questo senso Frankenstein. Il racconto del mostro è stato un atto politico senza parlare di politica, anche al di là del testo e del confronto che ci suggerisce con la diversità, con le paure stereotipate. Politico è stato il fatto di invitarci a ritirare la delega ad altri per l’uso dell’immaginazione, per riappropriarcene. Grazie all’incontro vivo e più che mai variabile tra chi legge e chi ascolta, con la parola e il gesto protagonisti assoluti.
Una scenografia inesistente in termini di oggetti, fatta eccezione per un tavolo su cui poggiano alcuni vecchi tomi e una scodella. Uno schermo su cui vengono proiettati disegni essenziali e apparentemente semplici, ma con la giusta parsimonia per evitare derive didascaliche.
Le atmosfere sono affidate alla voce accompagnata da variazioni di luci e alcuni brani musicali che qua e là compaiono E forse la musica è di troppo; l’ho avvertita quasi come una colonna sonora, mi è parso che avvicinasse la narrazione al cinema…La voce di Elio De Capitani sarebbe bastata. E all’inizio c’è solo quella. Seduto e incappucciato, il narratore ci preclude il volto, i gesti iniziali sembrano nascere titubanti, ripetitivi. Poi leva il cappuccio e allora si completa quella presenza, quel contatto tra chi racconta e chi ascolta che nessun video potrebbe mai darci. All’inizio mi sorprende che per l’amplificazione abbia scelto un normale microfono fisso invece di un comodo archetto. Ma poi vedo che le limitazioni di movimento imposte dal microfono diventano parte essenziale del contenimento recitativo, coadiuvando l’attore nella compressione e riduzione delle azioni, che non si manifestano allora nel movimento nello spazio ma nella tensione all’azione, che non si annulla ma rimane gran parte in potenza e che noi percepiamo anche se abbozzata o solo vibrante nel corpo del narratore. L’obbligo a stare sul microfono in una sorta di chiusura pare proprio restituirci l”imbarazzo, la goffaggine del mostro.Le parole escono masticate, respirate, ne percepiamo il suono dalle labbra umettate e sembra di avvertire la fatica, il lavoro ancora incerto e grossolano dei polmoni tornati da poco alla vita. E poi un paio di inciampi nella lettura, ma evviva! C’è un uomo di fronte a me a porgermi una storia e non un prodotto perfettamente confezionato e stabile!
Qua e là De Capitani sembra quasi abbandonare il ruolo di lettore per portarsi sulla rappresentazione del personaggio, con picchi vocali e gestuali che potrebbero apparire eccessivi, specialmente perché legati ad una narrazione al passato. Non dimentichiamo però che ha il difficile compito di tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore per ottanta minuti e queste spinte sono senza dubbio efficaci per tale scopo.
Insomma, quando tutto finisce, anch’io posso dire che la lettura di Elio De Capitani abbia raggiunto il suo scopo: anche io ho visto il mostro, proprio come il bambino seduto vicino a me. A tal proposito: io non so se quel bambino sia dotato di particolare pazienza o immaginazione o capacità di ascolto; quello che so per certo è che è cresciuto ascoltando ogni giorno storie dai suoi genitori. Anche questo è un bell’atto; se non politico, un grande atto di cura. Non smettiamo di raccontare storie ai bambini, non facciamogliele solo guardare. Se non altro, li aiuteremo a vedere i mostri e forse, un giorno, ad averne meno paura…
Edgar Contesini
da Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno
di Mary Shelley
assistente alla regia Alessandro Frigerio
disegni di Ferdinando Bruni
voce (registrata) del dott. Frankenstein Ferdinando Bruni
luci Nando Frigerio
suono Gionata Bettini
produzione Teatro dell’Elfo
Milano, Teatro Elfo-Puccini, in prima nazionale fino al 5 novembre