Le didascalie introduttive de’ “L’insulto”, del libanese Ziad Doueiri, spiegano le ragioni del suo arresto, al rientro nel suo Paese dopo la fortunata partecipazione al Festival di Venezia dell’anno scorso.
Le tesi del film, si dice più o meno, non sono in linea con la politica del governo libanese. Certo che da questo al suo arresto per “collaborazione col nemico” ce ne corre. Quale sia poi questo nemico non è dato sapere, anche perché le tesi del film parlano di riconciliazione e di pace, in un paese retto da anni da un governo di unità nazionale che della riconciliazione dovrebbe fare la sua bandiera. Evidentemente la Beirut dei palazzi ricostruiti dalle macerie di decenni di guerra civile, che le immagini finali del film ci restituiscono, non coincide con quella ricostruzione di uno spirito nazionale che è ancora più necessaria.
I due protagonisti del film: il cristiano libanese Tony e il palestinese Yasser rappresentano quella frattura che persiste tuttora in Libano al di là dei proclami, così come la loro ostinazione nel non voler riconoscere i propri torti ha molto a che vedere con l’impossibilità di ricucire quella frattura.
Bravi entrambi i protagonisti Adel Karam e Kamel El Basha, anche se solo a quest’ultimo, nei panni di Yasser, è stata assegnata a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Non vogliamo neanche pensare che tale scelta sia stata dettata dal ritenere più politicamente corretta l’attribuzione del premio al palestinese in quanto tale.
Soprattutto perché quello dell’eccesso di garanzie formali a favore dei palestinesi è una delle questioni più spinose messe in campo da Doueiri. Solo formali in realtà perché, come dice il povero Yasser, essi sono diventati “i servi del mondo arabo”, o almeno questa è la sua percezione della realtà. Per contro, dall’altra parte c’è l’impressione che in Libano ci sia “talmente tanto spazio per i palestinesi che non ce n’è rimasto altro”.
Tutto nasce nel plot di Doueiri da una banale diatriba per una questione di scarichi d’acqua tra il meccanico Tony, fanatico dei falangisti cristiani col mito di Bashir Gemayel e fascista anche nei modi e il diligente ma irascibile capocantiere palestinese Yasser, che lavora per una ditta appaltatrice di lavori pubblici nella ricostruzione di Beirut.
– Sei un cane, dice Yasser.
– Magari Sharon vi avesse sterminati tutti fin dal primogenito, gli risponde Tony.
E dalle offese i due passano alle mani e finiscono in tribunale. Quando però, dopo il primo grado che dà ragione al palestinese, la causa va in Corte d’Appello, la vicenda assume connotati di rilevanza nazionale, fino ad interessare lo stesso Presidente della Repubblica, anche davanti al quale i due non sentono ragioni.
Il plot assume dunque la formula del film processuale, mentre fuori s’inaspriscono gli scontri tra le due fazioni fomentate da agitatori politici.
Da una parte sentiamo fare nei confronti dei palestinesi, da sempre mal tollerati, gli stessi discorsi dei razzisti di casa nostra sulle agevolazioni date agli extracomunitari; dall’altra percepiamo quell’eccesso di politically correct – simile a quella di certi progressisti nostrani che negano le problematiche derivanti da un’immigrazione incontrollata – che nasconde la cattiva coscienza nei confronti di un popolo senza patria che in Libano ha conosciuto drammi come Sabra e Shatila.
Un importante studio legale cristiano di Beirut si offre di assumere la difesa di Tony e nel corso del processo mostra le intenzioni politiche che stanno dietro a quell’offerta. Allo stesso modo una giovane avvocatessa prende le parti del palestinese. Specchio dello scontro, anche generazionale, all’interno della società intellettuale libanese, entrambe le parti mettono in campo argomenti validi a sostenere le opposte tesi. Uno per tutti: che “nessuno ha il monopolio della sofferenza”. Così come i palestinesi hanno sofferto a Sabra e Shatila, i libanesi cristiani hanno patito a Damour.
Forse è proprio l’accenno ai fatti di Damour che ha infastidito tanto il governo libanese.
Ma solo una riconciliazione basata sulla verità e sulla reciproca assunzione di responsabilità può consentire, per quanto possibile, di passare oltre.
Grande film insomma, non a caso in lizza per l’Oscar 2018 quale miglior film straniero.
Quanto ai due protagonisti, almeno su una cosa hanno capito di pensarla allo stesso modo: entrambi, nei rispettivi campi di lavoro, pensano che “i cinesi fanno solo porcherie”.
Dino Geromel