Deludente per ciò che ci riguarda la messa in scena di Laika, di e con Ascanio Celestini, allestita al Teatro di Meano ( Trento) in data 31 gennaio 2018.
Nella presentazione “Laika” il protagonista dovrebbe impersonare un “Gesù” a confronto con i propri dubbi e le proprie paure, accompagnato da Pietro e dalla bella musica della fisarmonica dal vivo di Gianluca Casadei.
Ma a nostro avviso di Gesù questo personaggio non sembra avere nulla e nemmeno i vaghi riferimenti presenti nel testo sembrano sostanziare questa tesi. E a noi sembra più un pretesto per guardare la realtà da un “trampolino” più autorevole di quanto avrebbe potuto fare un qualsiasi barbone, o schizofrenico.
La realtà vista è quella del lavoro dei facchini di un supermercato, della loro lotta per ottenere condizioni di lavoro migliori, del parcheggio di un palazzo in cui si incrociano altre vite ai margini.
Primo spettacolo di una trilogia, ma avevamo già visto il secondo spettacolo della trilogia Pueblo, in anteprima al Kilowatt Festival 2017, Laika non si discosta dalle modalità di lavoro di Pueblo, che forse invece ci è parso sapere offrire qualcosa di più di Laika in ordine alla caratterizzazione dei personaggi.
Sostanzialmente ci pare però che le critiche già mosse a Pueblo in quella occasione possano essere condivise anche per questo: una lettura superficiale della realtà in merito ai contenuti, peraltro non supportata da un linguaggio teatrale capace di ravvivare e concretizzare anche con azioni sceniche un monologo che rimane tutto centrato sul testo e la sua interpretazione.
E’ indubbia infatti la capacità di tenuta di scena dell’attore, che sembra però attingere più dalla propria esperienza professionale, contaminata da clichè ed “appoggi “ facilmente intuibili: mappature gestuali capaci di ricondurre i personaggi citati alla memoria degli spettatori, che ad un lavoro attorale centrato sulle tematiche affrontate di emarginazione, così come vorrebbe la presentazione dello spettacolo e il filo conduttore di questa trilogia.
Nè le denunce e le provocazioni verbali a tratti esplicite presenti risultano realmente credibili, mescolate a tratti macchiettistici tali da far pensare in alcuni momenti ad un cabaret d’intrattenimento: un testo che sembra pescare qui e là per accontentare tutti i palati, in un calderone di situazioni tragicomiche che finiscono ( come nel Pueblo recensito nel 2017) per togliere al tutto quel valore drammatico, parlando di emarginazione, che lo spettacolo avrebbe potuto avere.
Aldilà delle critiche in merito alla conduzione dei contenuti, relativi sia al testo che alla sua interpretazione, peraltro bene accolti dal non numeroso pubblico presente, ci sembra che la maggiore carenza dello spettacolo sia proprio l’assenza di una drammaturgia, di quella concatenazione di azioni sceniche cioè capaci di introdurci nella “storia”, di quella fisicità che rende “vivo” il teatro e di quella coloritura capace di dipingere luoghi, personaggi, atmosfere, problema peraltro a nostro avviso spesso presente nei monologhi, che tendono a spostare l’attenzione più sulle abilità attorali personali che non sul tema dello spettacolo, confondendo il mezzo ( l’attore) con il fine ( il senso dello spettacolo).
Emanuela Dal Pozzo