L’OTELLO AL TEATRO FILARMONICO DI VERONA

otello veronaUn mondo sospeso su di un’ isola (Cipro) in cui non si trova pace, galleggiante su di una rete di emozioni e sentimenti che, radicati nel nostro animo, possono elevarci o trascinarci nel più profondo degli abissi.

È una visione universale e di ampio respiro quella realizzata da Francesco Micheli in questa produzione di “Otello” ( 2012 Teatro La Fenice la première, qui ripresa da Giorgia Guerra ); il regista, attraverso un’attenta analisi ed interpretazione del testo di Boito, molto fedele all‘originale shakespeariano, arriva a cogliere ed a comunicare con vividezza una lettura approfondita dell’opera, evidenziandone i fondamentali nuclei drammatici e narrativi.

Motore centrale della tragedia non sembra qui essere il male allo stato puro, ma il concetto di come e con quale repentina potenza questo possa svilupparsi all’interno di ogni individuo, senza un percorso particolarmente prevedibile. La debolezza dell’ essere umano lo porta ad essere privilegiato bersaglio delle sue stesse fragilità che, se non dominate da una ragione raffinata e analitica, tendono a avvilupparsi in gesti ed azioni tra le più efferate e la cronaca di tutti giorni purtroppo ce lo conferma.

Il regista sembra soffermarsi su questo concetto, andando ad analizzare quanto e come i personaggi illustrati vadano a rifugiarsi in immagini di un mondo letterario e fantasticamente interpretato (l’idra di Lerna), anche attraverso una rappresentazione di costellazioni e pianeti (la pleiade, Venere, le attorte folgori, il ciel marmoreo ecc.) che sembrano dominare le azioni umane.

Così l’opera si apre con un velario che raffigura un globo celeste del 1500, tema poi principale e che connoterà lo spazio scenico attraverso una struttura cubica rotante, a tratti illuminata, che cela al suo interno una stanza moresca, mondo fiabesco degli amanti.

A questo punto il significato della visione cambia e teatralmente ciò che comincia a prendere vita è l’ottica della vicenda da parte di ogni personaggio; ciò che si vede non è più la realtà ma la proiezione relativa della stessa. Tralasciando i raffinati costumi di Silvia Aymonino che ricordano un imprecisato fine Ottocento, ciò che colpisce è la contemporaneità di determinati spazi che mutano significato e funzione. Un esempio su tutti: nel quarto atto, dopo la scena in cui Desdemona si trova sola con la sua visione di una realtà dolente e sofferta, all’ entrata di Otello, la stessa si trasforma concretamente, visualizzando le brande militari su cui i soldati sono soliti riposare, teatro del presunto tradimento di Desdemona. Ciò che fa fede teatralmente in quel momento è quello che gli occhi, guidati dalla mente offuscata di Otello, vedono e sarà quella la verità che lo porterà al delitto. Interessante anche l’uso, in molti quadri corali, di modellini di antichi vascelli che, riportando la mente agli ex voto che riempiono le cappelle di molte chiese di mare, rimandano istantaneamente ad un concetto di realtà galleggiante e precaria. Forse un po’ convenzionale l’idea finale di un ricongiungimento celeste dei due amanti dopo la morte, seppur portata avanti con coerenza .

In palcoscenico si muovevano due cast sostanzialmente professionali e di tutto rispetto ma con esito diverso.

Sulla vocalità necessaria a tratteggiare sapientemente il personaggio di Otello si potrebbe aprire un dibattito infinito e non è detto che si arriverebbe ad una soluzione.

Certamente la tradizione ci ha abituati ad un’interpretazione che si risolve e si determina con la vocalità stessa, ma oggi viene richiesta all’artista una visione un po’ più allargata del carattere del personaggio. Certo, la partitura esige una timbrica brillante che possieda il volume e la lucentezza di una lama, ferocemente autorevole, ma altresì un’aderenza alla parole che deve essere sempre totale e approfondita.

In questo caso il tenore Kristian Benedikt, dotato di uno strumento estremamente interessante per colore e di un ottimo dominio tecnico, affrontava la partitura senza timore, con un risultato più che positivo. Certo la scelta di impostare il suo ruolo su di un’emissione il più delle volte stentorea portava la voce ad andare indietro e a perdere talvolta volume, non permettendo così, a parte rarissimi momenti, particolari raffinatezze di fraseggio .

In Ian Storey, artista robusto e dall’importante vocalità, ritrovavamo più o meno le stesse caratteristiche, aggravate però da un’emissione più forzata e da un’interpretazione sostanzialmente monocorde.

La Desdemona di Monica Zanettin, attraverso la sua peculiare timbrica, caratterizzava con professionalità il suo carattere che, soprattutto nel quarto atto, riusciva ad emergere attraverso un accurato uso della mezza voce. Un po’ trascurata invece una più profonda analisi del personaggio che, lontano da ogni convenzionalità, risulta ancora oggi attuale e drammaticamente significativo.

Dal timbro molto interessante la Desdemona di Karina Flores colpiva invece per la morbidezza di una vocalità raffinata, ma la contemporanea drammaticità del personaggio restava, anche per lei, ben lontana dalle sue corde .

Assolutamente centrato, sotto il profilo interpretativo quanto vocale, il raffinato Jago tratteggiato dal baritono Vladimir Stoyanov. In questo caso infatti il ruolo diveniva servo del carattere e l’artista metteva a disposizione la sua esperta professionalità e tecnica per la teatrale resa del complesso personaggio, così questo diventava davvero credibile , ben celato nella guasconeria di un falso cameratismo.

La sua solida e pastosa timbrica nascondeva così alla perfezione , attraverso un attento lavoro sulla parola e sul fraseggio, l’anima nera di uno dei più cupi e terribili caratteri verdiani, e ciò non è poco merito.

Sostanzialmente monocorde e centrato esclusivamente sulla dimensione vocale lo Jago tratteggiato invece da Ivan Inverardi che, pur esibendo distinta professionalità, restava lontano da un’attenta caratterizzazione del ruolo .

Assai bene il resto del cast :Mert Süngü (Cassio), Francesco Pittari (Roderigo), Romano Dal Zovo (Lodovico), Nicolò Ceriani (Montano), Giovanni Bellavia (Un araldo) e Alessia Nadin (Emilia).

Ottima sotto ogni profilo la direzione marcatamente teatrale di Antonino Fogliani che, grazie all’ottimo lavoro con solisti ed orchestra , raggiungeva una solida compattezza drammatica di grande impatto musicale e scenico, mentre alla replica la stessa veniva a tratti compromessa a causa di una mancata giusta comunicazione tra orchestra e palcoscenico .

Molto buona la prova del Coro della Fondazione, diretto dal M. Vito Lombardi e del coro di voci bianche A.LI.VE diretto da Paolo Facincani.

Sala gremita in ogni ordine di posti e gran successo per tutti gli interpreti ed il Direttore per  entrambe le recite.

Silvia Campana

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