Ho cercato di rimettermi a scrivere, ma tutto quello che producevo era pieno di un’acrimonia che mi faceva vegognare. Un po’ lo cancellavo, un po’ lo nascondevo in cartelle che non aprivo mai. Stavo di nuovo prendendo le cose troppo sul serio. Mi fissavo sui presunti torti che Nick mi aveva fatto, cose dure che aveva detto o insinuato, in modo da poterlo odiare e quindi giustificare l’intensità dei miei sentimenti per lui come un’avversione profonda. Ma riconoscevo che l’unca cosa che aveva fatto per ferirmi era stata togliermi il suo affetto, e aveva tutto il diritto di farlo. Per il resto era stato gentile e premuroso.
Sally Rooney, irlandese, 27 anni, una prosa tagliente e per nulla compiaciuta, con cui scolpisce – per sottrazione, a dirla in termini scultorei – il profilo del suoi personaggi. Questo suo primo romanzo ( Einaudi 2018), già acclamato successo internazionale, porta avanti una riflessione su una condizione emotiva transgenerazionale – quella della scoperta del fascino dell’altro da sé – come se si trattasse di una moderna educazione sentimentale. Al centro della scena quattro figure e due coppie: Nick e Melissa, coniugi affermati e di successo, ma apparentemente annoiati da un mènage famigliare in cui tutto è stato detto, Frances e Bobbi, amanti, amiche, ex compagne, che di parole quasi non hanno bisogno, comunicando attraverso la sola presenza. Le persone faticano a distinguersi dai personaggi all’inizio di questo racconto, forse perché di arte, recitazione e finzione scenica si parla fin dalle prime righe. Frances e Bobbi recitano come duo nei locali, interpretando poesie nate grazie al mescolarsi delle loro attitudini (la scrittura e la riflessione, l’intuizione del gesto e l’azione), Nick è un attore, Melissa scrittrice e fotografa. Nessuno vive la vita senza la mediazione costante di un tramite artistico. La finzione scenica irrompe anche nella vita di tutti i giorni con clichès perfettamente (e non senza un certo narcisismo) interpretati dai protagonisti: la casa perfetta, le cene in cui si discute (e ci si discute addosso), il desiderio intenso, da parte delle due giovani ragazze, di essere accolte in un mondo, quello dell’èlite culturale di cui Nick e Melissa fanno parte, che sembra considerarle solo con un abbellimento “di costume”, un potenziale argomento di conversazione. Le diversità più o meno profonde – per età, condizione sociale, formazione culturale, aspettative nei confronti della vita – si acuiscono o annullano a seconda dell’andamento del racconto e dello svilupparsi delle relazioni fra i personaggi. I legami affettivi restano infatti il centro focale dell’azione, insieme alla loro analisi – fredda e spassionata, a tratti quasi clinica – e la loro meticolosa descrizione. L’innamoramento, la gelosia, la nostalgia per una relazione passata o per i fantasmi che ancora la animano, adulterio, amicizia, rancore, disperazione, serenità non si susseguono tuttavia secondo i ritmi del cuore, quanto assecondando quelli della mente senza però che questo porti ad un’asettica descrizione modernista. Utilizzando una categoria mutuata dal cinema, sembra quasi che la Rooney abbia voluto realizzare un “docufilm” o “docufiction” su una complessa, quanto ordinaria (almeno stando ai parametri da lei impliciatemte fissati) relazione a quattro.
Ogni sequenza, in questo senso, potrebbe trovare una sua didascalia precisa: “Il fascino dell’intellettuale nelle giovani studentesse”, “Il desiderio di evasione e fuga dalla routine di un – non più tanto giovane – attore”, “Il dolore dell’abbandono”, “L’auto esilio emotivo”.
Con le sue competenze sull’animo umano Sally Rooney avrebbe potuto scrivere un saggio oppure un romanzo.
Parlarne tra amici potrebbe invece sembrare, a tutti gli effetti, una terza via, una sorta di racconto esemplare. Stupisce, stando al dato anagrafico, la sicurezza nell’interpretazione dei sentimenti, ma anche lo stile e l’attitudine con i quali vengono delineati.
La Rooney affronta con estrema serietà e precisione il racconto, senza sbavature o abbassamenti della tensione narrativa. Di fronte alla complessità esistenziale non reagisce con una caotica descrizione dell’avvicendarsi delle emozioni, ma con compostezza le ricolloca al di fuori dell’unicum dell’esperienza letteraria, all’interno del normale svolgersi delle umane vicende.
Forse in questo risiede l’originalità della sua scrittura: saper fotografare l’avvenuta normalizzazione di alcuni elementi di trasgressione nelle relazioni (almeno a livello sociale), con uno sguardo che ne restituisce l’unicità e allo stesso tempo l’assoulta banalità.
Caterina Bonetti