A 150 anni dalla morte dell’Autore e a 70 dal debutto nel festival areniano, il “Barbiere di Siviglia” di Rossini ritorna nell’anfiteatro romano di Verona quale quinto e ultimo titolo del 96° Opera Festival.
L’edizione è quella firmata in regia, scene, costumi e luci da Hugo de Ana nel 2007 per Fondazione Arena, che da allora l’ha riproposta altre tre volte (2009, 2011, 2015).
Noi l’abbiamo apprezzata fin dalla prima apparizione e il tempo ci sembra confermarne la validità. Cogliendo lo spirito rossiniano, che include una acuta connotazione dei vari “caratteri” agenti sulla scena, Hugo de Ana ha creato un’ambientazione di puro divertimento. Una sorta di labirinto/teatro di verzura, ben inserito con le sue linee arrotondate in quelle ellittiche del contenitore romano. Vi ha aggiunto il tocco di elegante ironia dato da rose rosse gigantesche (il tema, non dimentichiamolo, è pur sempre un “love affair”) e da altrettanto gigantesche farfalle (“L’amore è eterno finché dura” recitava il titolo di un film di qualche tempo fa) dominanti l’intrico di siepi (declassate, all’epoca dei fatti, da labirinto quale metafora di spirituale ricerca di sé, a riservata “location” di più o meno tollerate galanterie) per ricordare quanto sia effimero e volatile il mondo degli amori. Specie in un secolo di frivolezze per eccellenza come il Settecento. Almeno fino al duro risveglio rivoluzionario. Intanto, però, noi godiamoci anche lo spettacolare “happy ending” di de Ana, con tanto di colorati e scoppiettanti fuochi d’artificio. Ironia e humour raffinato ispirano del pari le satiriche, deliziose coreografie di Leda Lojodice, dalla gestualità un po’ scattosa come bamboline meccaniche o di carillon, accostanti caricaturale leziosità a più arruffati modi clowneschi e spesso fissate in cinematografici fermo immagine.
Eseguite dal Corpo di Ballo dell’Arena coordinato da Gaetano Petrosino, risultano fondamentali alla realizzazione dell’idea progettuale del regista, come gli spiritosi costumi ispirati all’epoca e il gioco di luci dallo stesso ideati.
Non ci è parsa altrettanto felice la componente musicale.
Sul podio, Daniel Oren mantiene con la solita maestria il coordinamento tra palcoscenico e golfo mistico, mostrando però — dinamiche alquanto allentate e concertazione di routine, cui l’Orchestra dell’Arena si adegua — che questo mondo rossiniano, nel quale, in Arena, è al suo debutto, non sia al momento tra le sue corde migliori.
Nella compagnia di canto, in evidenza il nome del grande Leo Nucci, applauditissimo, anche per aver accettato di ricoprire ancora una volta (per le prime due recite) il ruolo del titolo, già suo nella prima edizione del 2007. Ma se possiamo lasciarci andare sull’abbrivio dei ricordi, troviamo Nucci quale Figaro in Arena fin dal 1996, con Cecilia Gasdia quale Rosina, nella estrosa regia di Tobias Richter. La voce non ha proprio la freschezza di allora, ma da allora l’affetto del pubblico è rimasto immutato. Roboante la richiesta di bis alla celeberrima cavatina, generosamente concesso.
Nino Machaidze, che riporta il ruolo all’originario registro di mezzosoprano, inizia con vocalità retroflessa, ma poi la voce prende a scorrere in bel crescendo e la sua Rosina si fa agile e pregevole nel canto, brillante e convincente nel “carattere”.
Bene nella parte anche Dmitry Korchak quale Conte di Almaviva. La tecnica non è impeccabile. Ulteriore studio valorizzerebbe maggiormente una materia vocale di tutto rispetto.
Un notevole successo personale riscuote, inoltre, la brava e spiritosa Manuela Custer nei panni di Berta. Carlo Lepore è a proprio agio nel ruolo di Bartolo, e Ferruccio Furlanetto è Basilio di esperienza, anche se la sua “Calunnia” scivola via un po’ in sordina.
A posto Nicolò Ceriani (Fiorello/Ambrogio) e Gocha Abuladze (Un Ufficiale).
Bene il Coro dell’Arena preparato da Vito Lombardi.
Pubblico generoso di consensi per tutti in un’Arena quasi esaurita.
Visto il 4 agosto.
Franca Barbuggiani