Il Festival e una chiacchierata con il Direttore Artistico Massimo Munaro
Siamo presenti al Festival Opera Prima, che riappare a Rovigo nella sua XIV Edizione dal 13 al 16 settembre 2018 dopo 10 anni di assenza, grazie alla fattiva collaborazione del Comune della città e alle “urgenze” o inquietudini che attraversano il Teatro del Lemming, così come mi racconta, con una certa estroversione, Massimo Munaro, direttore artistico del Festival nonché regista storico della Compagnia: da un lato lo scarto generazionale, dall’altro la necessità di ridefinire nel teatro il rapporto tra attori, tra attore e spettatore, attore e spazio scenico. Tematiche ultimamente molto dibattute e che hanno dato vita a festival teatrali dedicati ( Orizzonti Verticali a San Gimignano).
In effetti se da un lato si dubita che i maestri del passato ( e non solo in ambito teatrale) abbiano passato il testimone a più nuove generazioni e che di loro rimanga solo la testimonianza degli spettatori di allora, destinata a scomparire nel tempo, dall’altro ci si interroga sul “nuovo” che avanza e che sembra invadere i canali dedicati nelle sue molteplici forme.-Quest’indagine si incrocerà con la presentazione pubblica del libro edito da Titivillus “Ivrea cinquanta. Mezzo secolo di nuovo teatro in Italia 1967/2017” , qui a Rovigo sabato 15 settembre, atti e interventi del convegno svoltosi a Genova nel 2017, coordinato dal critico teatrale Marco de Marinis e che ha radunato artisti e studiosi all’interno del Festival teatrale organizzato da Akropolis.-
Il festival ha concretizzato queste considerazioni con due atti significativi: chiedendo ad ogni compagnia storica presente di segnalare un artista o una Compagnia giovane meritevole da portare al Festival e la richiesta, attraverso un Bando, di opere teatrali capace di rispondere all’indagine in questione: quale rapporto tra attori e spettatori? Quale spazio scenico?
“E’ questo sostanzialmente il filo conduttore del Festival, mi dice Munaro, accettando anche le eventuali “occasioni mancate” delle Compagnie presenti. D’altronde il Festival si chiama Opera Prima e può essere che un lavoro giovane non sia ancora compiuto o non adatto allo spazio dedicato. Gli chiedo come comprende cosa scegliere tra le innumerevoli proposte pervenute. Mi dice che la scelta è stata condivisa con gli attori del Lemming, che è importante la percezione di “ freschezza” dell’opera di una Compagnia esordiente, l’intuizione che quella modalità di lavoro possa essere ricca di promesse.
Gli chiedo infine se per lui oggi abbia senso definire cosa sia il teatro e qual è la sua visione, domanda che faccio sempre a registi, attori, direttori artistici e che nella quasi totalità dei casi viene elusa e miracolosamente mi risponde in modo chiaro.
“Certo che bisogna interrogarsi su cosa sia il teatro, è l’ambito del tuo lavoro e tutti quelli che lavorano nel teatro dovrebbero chiederselo: io me lo domando ogni giorno. Quando penso al teatro penso a due definizioni: quella data da Wagner quale somma di tutte le arti e quella di Grotowsky: un attore, uno spettatore e uno spazio scenico quale condizione minima essenziale.”
La conversazione, alla luce di questa dichiarazione e delle scelte poetiche del Teatro del Lemming si concentra sul senso di uno spettacolo con un solo spettatore, condizione rispetto alla quale ho sempre espresso perplessità scrivendone, sulla necessità che il teatro sia un fatto sociale, sulle modalità di comunicazione tra spettatori anche con uno spettatore solo, sul desiderio di creare cittadinanza, sull’importanza del passaggio di emozioni tra attore e spettatore, ma anche sulla qualità di queste emozioni, sul rapporto “democratico” tra attore e spettatore, sulla differenza tra teatro e psicoterapia e teatro e performance, andando a rintracciarne le origini negli antichi riti sacri e riti d’iniziazione.
Una conversazione aperta, interessante, ricca di spunti di riflessione e di angoli ancora da esplorare e che probabilmente, aldilà della visione degli spettacoli, diventa uno degli elementi qualificanti di questo festival, – dovrebbe esserlo per tutti ma nn è così scontato- teso ,ci è parso,all’attenzione all’altro, critico o spettatore, all’incontro e allo scambio anche e soprattutto quando approcci, esperienze e scelte possono sembrare andare in direzioni diverse.
Gli spettacoli
Sezione giovani
Rinunciando a trovare un filo conduttore comune e cercando di accettare senza pre-giudizi il nuovo, che non può che aprirsi a ventaglio su proposte eterogenee, certamente punte di iceberg che rimandano a mondi diversi in stili, linguaggi, campi d’indagine, ciononostante ci interroghiamo sulla loro efficacia comunicativa, sulla coerenza dei codici interni e sulla loro pertinenza circa l’oggetto di studio indagato, come da premessa- attore, spettatore e spazio scenico.
Forse si farebbe fatica a comprendere la presenza del lavoro “The telescope” dell’inglese Tim Spooner che guarda attraverso le lenti di un telescopio eventi magnetici e reazioni chimiche domandandosi quale sia la vera natura degli oggetti sotto indagine, influenzati nella loro lettura dal contesto ( la superficie di un pianeta sconosciuto o il particolare inedito di una realtà che ci accompagna quotidianamente) e dal punto di vista dell’osservatore, se il lavoro stesso non ponesse implicite domande sul rapporto tra chi guarda e chi viene osservato, tra attore e spettatore ed egli stesso non si ponesse nel farlo in un particolare spazio scenico e in una particolare condizione di relazione con lo spettatore.
E altrettanto rimarrebbe sterile la performance “Steli/ Reaction” di Stalker Teatro, progetto sperimentale teso ad indagare il rapporto tra teatro e arti visive, ma che qui più puntualmente realizza una costruzione scenica poi interagita, nel luogo pubblico della piazza, con l’aiuto degli spettatori, se quest’azione comune non fosse fortemente simbolica di un interagire effettivo tra attori e spettatori.
Anche se entrambe, dal mio personale punto di vista, rimangono così come sono più dimostrazioni di percorsi possibili indagati ancora in superficie, lasciando interrogativi ma anche zone d’ombra (sarebbe stato molto più interessante “leggere” i presupposti di The Telescope in un’azione teatrale maggiormente riconoscibile, almeno per noi che cerchiamo di distinguere tra processo ed esito, così come nel secondo la manifestazione d’intenti si sarebbe meglio concretizzata in una costruzione meno prevedibile, più lasciata “in mano” agli spettatori e meno forzatamente interagita).
E probabilmente incomprensibili le performances per uno spettatore solo “ Bocca “ di Amantidi e “No frame portrait” di Dodicianni, nei Sotterranei Due Torri, se non le interpretassimo come ricerca di una comunicazione inusuale con lo spettatore, la prima che nel sollecitarlo si sottomette al suo volere, la seconda che lo pone in una condizione di ascolto particolare.
Dall’analisi di tutto ciò rimane viva l’impressione che il gusto del dettaglio, del frammento, stia prendendo il sopravvento, almeno per ciò che riguarda le nuove generazioni, attenzione immersiva di un particolare che poi non sembra volersi restituire al tutto e ricollocare in un quadro più ampio decifrabile di senso. Si vive” hic et nunc”, nell’attimo presente.
Between me and P. di Filippo M.Ceredi, per parlare di altra produzione giovane ( anche se l’autore/attore non è poi così giovane) è un racconto autobiografico di buona efficacia, capace di coniugare il personale con il politico, allargando gli orizzonti individuali e convogliandoli in un disagio esistenziale sociale più ampio e complesso. Particolare la modalità del racconto, anche qui costituito dal raduno di frammenti che nel corso del suo svolgimento contribuiscono al compimento del puzzle, il tutto attraverso la mediazione del pc, dei suoi documenti e della sua scrittura.
Se la curiosità dello spettacolo sta nell’avere scelto quasi esclusivamente il pc quale mediatore e veicolo di comunicazione, la sua forza sta probabilmente nell’”urgenza” che si avverte, da parte dell’autore/ attore della sua messa in scena.
“ Angst vor der angst- secondo studio” di Welcome Project- the foreigner’s theater, produzione italo tedesca, ci è parso ancora uno spettacolo in embrione, nel quale le diverse sollecitazioni non risultano coese in un quadro unitario, piuttosto frammentate, poco giocate e approfondite, non sempre teatralmente leggibili aldilà delle dichiarazioni d’intenti: un work in progress.
“Abu sotto il mare” di Pietro Piva sembra essere la migliore proposta di questa sezione, capace di coniugare originalità di approccio alla tematica drammatica delle traversate dei migranti, inventive ed efficaci soluzioni sceniche, competenza tenica interpretativa e una bella drammaturgia.
Ci pare adatto anche ad un pubblico scolastico di secondo ciclo della primaria e di scuole medie inferiori, meglio se asciugato in qualche parte, in modo da renderlo più breve.
Uno spettacolo già collaudato, Premio Scenario Ustica 2017, che nella traversata in valigia vista con gli occhi di un bambino, trasforma a tratti il dramma in poesia.
Occasione mancata invece, per usare l’espressione cara a Massimo Munaro, per lo spettacolo” Una classica storia d’amore eterosessuale” di Domesticalchimia che avrebbe dovuto, secondo le premesse, “sperimentare una nuova messa in scena indagando temi classici quali l’amore, il linguaggio, la sessualità e la famiglia” e che invece nei fatti si è rivelato un noioso e lunghissimo elenco di banalità, condito da momenti spiacevoli ( volgari forse ci sembra eccessivo), nonostante l’approccio interpretativo accettabile dei tre protagonisti. Fallita anche, ci sembra essere stata, l’interazione con il pubblico chiamato ad una partecipazione passiva.
Buono il contributo della danza che se con “Sghembo”, danza urbana dei Cantieri Culturali Creativi giocata tra disequilibri ed estetica formale, convince, con “Hey Kitty!” , omaggio ad Anna Frank, dell’armena Rima Pipoyan, entusiasma: un gioiellino inaspettato, un misto di bravura tenica e formale e di equilibri indovinati tanto nella danza quanto nella realizzazione del film su grande schermo a supporto del palcoscenico, una performance di rara bellezza che ha visto l’unanime consenso entusiasta di tutti i presenti.
Le altre proposte
Tra gli spettacoli di compagnie e artisti noti e già affermati, l’occasione davvero mancata va all’Accademia degli Artefatti/Florian Metateatro con lo spettacolo “La chiave dell’ascensore”, a nostro avviso “sbagliato” in tutte le sue declinazioni, al punto che la prigione in cui si trova rinchiusa la protagonista Anna Paola Vellaccio diventa la trappola mortale dello spettatore, complici una drammaturgia banale, prevedibile e ripetitiva, fissità scenica ed assenza di azioni, luci poco indovinate, lunghezza eccessiva a fronte dei contenuti reali.
A parte questa produzione inspiegabilmente inserita nel Festival, ottimo il livello delle altre presenze.
Il “Faust Memories” conferma il rigore formale di Lenz Fondazione, anche se l’aderenza interpretativa della brava Sandra Soncini ad un testo drammaturgico corposo, peraltro disseminato da pochi oggetti e rare azioni sceniche, non contribuiscono ad alleggerire uno spettacolo che richiede allo spettatore grande concentrazione.
Potente “Il cantico dei cantici” di Roberto Latini/Fortebraccio Teatro, un inno alla bellezza, un invito alla sensualità, una celebrazione del desiderio, tanto più urgente, irrinunciabile e assoluto, quanto più “effimero” nella mente e nella stanza di un giovane sbandato, perso nella propria musica e nella propria solitudine, sospeso tra il reale e l’impossibile, il perfetto e il difetto, l’assolutezza e la precarietà. Il dramma porta al sorriso e il fermo d’immagine diventa un ritratto poetico, amaro e ironico contemporaneo. Meritevole di sottolineatura il lavoro sulla voce di cui Latini, lettore interprete nel concerto poetico Lucciole da “della delicatezza del poco e del niente” di Mariangela Gualtieri aveva già dato prova.
Piacevole e pregno l’intervento teatrale“ Sull’orlo del precipizio”- pellegrinaggio teatrale di un “Reduce” di Simone Capula, che ci ha accolti aprendo il festival. Da farsi in un luogo informale, in sordina, quasi se uno spettatore, tra altri, decidesse di raccontarsi esibendo i propri trofei, brandelli di storie, memorie significative. E l’intervento teatrale senza grandi pretese di Capula illumina la nostra realtà, ce la rende leggibile, rintracciando nodi significativi, associando fatti, pensieri, riflessioni, immagini.
Lo abbiamo trovato un intervento onesto, puntuale, necessario, ma anche intelligente ed ironico, in un contesto di crisi sociale e teatrale in cui sembrano, dal mondo del teatro spesso,emergere più contraddizioni formali che sostanziali.
E per questo abbiamo deciso di intervistarlo, anche perchè Capula manca dal teatro dal 2009 ed eravamo curiosi tanto del suo abbandono che del suo ritorno.
Intervista a Simone Capula
Quando hai deciso di abbandonare il teatro nel 2009 c’è stato un particolare evento che ti ha indotto a farlo o è dipeso da un malessere generale nei confronti del teatro e cos’hai fatto nel periodo successivo?
Il 2009 coincide con la lettera di censura per lo spettacolo che avevo appena preparato da parte del Comune di Chivasso, nel quale vivevo e lavoravo e che cito e leggo anche nel mio intervento. Non è stato tanto la lettera in sé, che senza nemmeno avere visionato lo spettacolo mi vietava la sua rappresentazione in qualsiasi locale pubblico della città, solo perchè nello spèettacolo parlavo di Brigate Rosse, quanto lo scandaloso silenzio del mondo del teatro su una censura così importante. Poi lo spettacolo è stato messo in scena lo stesso in altri luoghi, ricevendo tra l’altro apprezzamenti anche da giornali non della sinistra, ma il fatto di non avere avuto un sostegno anche morale sull’accaduto da quelli che di teatro si occupavano e di avere da un lato percepito da parte di altre Compagnie e di altri attori, anche quelli che consideravo amici, questa chiusura all’interno del proprio “orticello”, quasi con la paura che un possibile esporsi avrebbe potuto danneggiarli togliendo loro capacità contrattuale con le istituzioni e dall’altro il loro non avere capito la gravità politica di questo segnale da parte delle istituzioni, ecco questo mi ha veramente amareggiato e fatto disamorare del teatro nel suo complesso.
Viviamo in un periodo in cui ci autocensuriamo. E’ questa la vera cosa preoccupante. Siamo noi i primi guardiani di noi stessi.
Cos’ho fatto dopo? Mi sono mantenuto facendo il lavapiatti.
Sei tornato ora con questo spettacolo. Perchè?
Più che uno spettacolo è un tentativo di ritorno, di ripartire facendo cose di cui so, perchè non sono più in condizioni fisiche tali da poter sostenere la pesantezza del lavoro di prima. Più che uno spettacolo è un incontro in chiave teatrale in ambiente informale tra amici- potrebbe essere l’invito ad una festa, ad un aperitivo o un caffè- una situazione con pochi spettatori capace di creare initimità. L’idea mi è venuta leggendo casualmente un libro in cui ho trovato sollecitazioni interessanti sul presente, degne di essere messe in luce. Ho cominciato a pensare come avrei potuto rendere in scena queste pagine, pensavo ad una lettura in una cornice e a dire la verità poi lo studio della cornice ha preso il sopravvento, perchè la cornice è diventata importante, elemento fondante.
Ora ho necessità di sperimentarlo e le occasioni di inviti non mi mancano. Se il format funziona potrei proporne altri con le stesse modalità.
Cos’è che ti interessa nel fare teatro? Ha senso parlare di teatro oggi?
Lego il teatro al viaggio e quando penso al teatro lo penso nelle case.
Ho la consapevolezza che questo lavoro che sto portando in giro inizi molto prima di quando accade, inizia nel momento stesso in cui mi metto in viaggio con il mio bagaglio, incontrando lungo il viaggio altre persone, inizia nel momento in cui qualcuno mi dà la sua disponibilità aprendo a me e ad altri la propria porta di casa.
Mi dai una definizione di teatro?
Il teatro è l’incontro tra attori e spettatori.
Emanuela Dal Pozzo