Giornalista, scrittore, drammaturgo, il britannico Michael Frayn è noto in veste di autore teatrale soprattutto per un titolo brillante, “Rumori fuori scena” (1982) che nel 1992 assurse agli onori degli schermi con la regia di Peter Bogdanovich.
Certamente lo spettatore medio – come noi – fatica a collegare alla stessa origine un testo di ben diversa atmosfera e tematica quale “Copenaghen”, visto al Teatro Nuovo di Verona in apertura della rassegna 2018-19 del “Grande Teatro”, organizzata dal Comune di Verona con il Teatro Stabile di Verona, main partner UniCredit, official partner Santi, e con il supporto di AGSM.
Si tratta di una ricostruzione storico-scientifica della mancata realizzazione della bomba atomica nazista, raccontata come un thriller attraverso i dialoghi dei protagonisti – ormai defunti ma ancor memori e inquisitivi–di quegli eventi.
Il danese Niels Bohr, Premio Nobel 1922, importante studioso dell’atomo e della meccanica quantistica, riceve nel 1941 a Copenaghen, presente la moglie Margrethe, la visita dell’ex allievo e amico tedesco Werner Karl Heisenberg, padre del principio di indeterminazione nella fisica quantistica, e lui pure Premio Nobel, nel 1932, all’epoca capo – peraltro sorvegliatissimo dalla Gestapo – del programma nucleare militare del Reich. Perché questa visita?
Tra ricordi e dissertazioni filosofiche, mentre riaffiorano sintonie amicali e distonie scientifiche, si palesa il senso, secondo Frayn, di quell’incontro.
Calati nella plumbea e claustrofobica scenografia di Giacomo Andrico, ispirata all’emiciclo di un’aula universitaria con nere lavagne ricoperte di formule matematiche e fisiche, e nei grigi austeri costumi di Gabriele Mayer, i tre protagonisti, impersonati da tre autentici mostri sacri del nostro teatro quali Umberto Orsini (Bohr), Giuliana Lojodice (Margrethe) e, soprattutto, Massimo Popolizio (Heisenberg), pur dando una eccellente prova di teatro di parola, non riescono a superare la sostanziale fissità scenica imposta dalla regia di Mauro Avogadro su un testo tanto denso e complesso. Inoltre, le luci di Alessandro Saviozzi poco aiutano a dinamicizzare l’ambientazione, come pure non riescono ad articolare lo spazio i parchi spostamenti dei tre attori — quasi atomi in casuale aggregazione o dissociazione – da un punto all’altro del palcoscenico con relative sedie di riferimento.
Il pubblico, comunque, segue con attenzione e alla fine applaude convinto.
Di grande attualità, infatti, le tematiche che emergono e che fanno riflettere. Come la dialettica tra etica e libertà di ricerca scientifica o l’aleatorietà della verità.
Ma forse si potrebbe anche individuare una larvata polemica – tutta interna al mondo anglosassone, tra il britannico Frayn e i cugini d’Oltreoceano – inerente la libertà di coscienza.
Più liberi gli uomini di scienza che, se pur con rischi, riuscirono e poterono esimersi dal compiere azioni per loro ripugnanti, oppure chi, sostanzialmente per tornaconto e denaro, furono indotti a passare dalla parte avversaria?
Curioso, inoltre, constatare come in questa pièce, rappresentata per la prima volta a Londra nel 1998, si faccia riferimento ad alcuni fatti emersi soltanto nel 2005 dagli archivi riservati dalla ex DDR.
Visto il 6 novembre
Franca Barbuggiani