Una indubbia assonanza con la condizione che sta attualmente attraversando il mondo occidentale, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri ed emarginati, ha indotto il regista Franco Però — per sua stessa dichiarazione — a portare in scena il celebre romanzo di Victor Hugo (1802-1885) “I miserabili”; opera, peraltro, ricca anche di ulteriori spunti di riflessione. Sono i grandi temi dell’uomo, come l’eterna lotta tra Bene e Male, l’antitesi tra Legge e Giustizia, il valore della pietà, della misericordia, del dolore, della dignità, della solidarietà, della redenzione e del riscatto, declinati nel contesto storico dal respiro epico gravitante intorno alle rivoluzionarie barricate parigine.
Ripetutamente oggetto, nel tempo, di adattamento a vari generi – dal cinema alla fiction, dallo sceneggiato al musical, oltre che al teatro – stavolta nella trasposizione del testo si è cimentato Luca Doninelli, per CTB Centro Teatrale Bresciano, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de Gli Incamminati, che producono lo spettacolo in lunga tournèe per l’Italia e di recente giunto a Verona, al Nuovo, dove lo abbiamo visto il 4 dicembre per la rassegna del Grande Teatro, giunto al terzo appuntamento (4-9 dicembre).
L’adattamento si articola in quadri e brevi scene paratatticamente accostati, a formare una sorta di sequenza alquanto slegata, drammaturgicamente poco incisiva e non sempre chiara — almeno così a noi è sembrato – specialmente nella sua complessa sintesi narrativa.
Fatti, personaggi e tematiche del geniale “feuilleton” hughiano, dal respiro epico-storico, tra note da romanzo “larmoyant”, borghese e patriottico, con rovelli di coscienza e alte tematiche etico-filosofiche degne di un’antica tragedia classica, emergono con vario peso – e secondo noi non sempre congruo — per lo più schizzati in punta di penna piuttosto che plasticamente sbozzati.
La regia, che punta su scelte antinaturalistiche e simboliche e non disdegna modi cinematografici, ha ritmi piuttosto lenti. Quasi statica agli inizi, aumenta via via in dinamismo fino al climax della scena delle barricate, per poi nuovamente decrescere, sino al finale che rasenta il mélo strappalacrime; evitato soprattutto grazie al registro recitativo sempre un po’ distaccato scelto, in particolare, per Franco Branciaroli (Jean Valjean) intorno al quale ruota una numerosa compagnia di elevata professionalità, tra cui Ester Galazzi (Fantine/Babtistine), Romina Colbasso (la fresca e ingenua Cosette), Francesco Migli (il pervicace antagonista Javert) con, tra gli altri, Alessandro Albertin, Silvia Altrui, Filippo Borghi, Riccardo Maran, Maria Grazia Pi.
Le scene, di Domenico Franchi, dal colore rigorosamente grigio (la vita reale non è tutta bianca o tutta nera, come vorrebbe il manicheo poliziotto che perseguita Jean Valjean, rifiutando le responsabilità del libero arbitrio e negando redenzione e riscatto per chi nella vita può aver sbagliato) sono costituite da rigidi parallelepipedi, “sfogliabili” a vista dagli stessi attori in tante lastre rettangolari, a scandire lo spazio, alluso nei vari ambienti da essenziali oggetti di scena, pure spostati a vista dagli attori.
Le luci di Cesare Agoni trasmettono suggestioni espressioniste e metafisiche.
I costumi di Andrea Viotti e le musiche di Antonio Di Pofi, invece, rimandano all’epoca della storia.
Lo spettacolo, intervallo compreso, dura quasi tre ore, ma le defezioni sono poche e gli applausi scroscianti e convinti.
Franca Barbuggiani