Scritta nel 1891 per la mitica diva del’epoca Sarah Bernhardt, “Salomè” si presenta come l’estrema fantasia di un autore eccentrico e decadente quale fu Oscar Wilde (1854-1900), che scandalizzò la perbenistica società londinese del suo tempo tanto da guadagnarsi, nel 1895, una condanna a due anni di lavori forzati per omosessualità.
Oculatamente stesa in francese, “Salomè” fu rappresentata per la prima volta nel 1896 nella più disinibita Parigi, dove lo stesso Wilde, scontata la pena, si sarebbe trasferito finendovi i suoi giorni, povero e abbandonato da tutti.
Il testo, forte e singolare, declina e reinterpreta la tradizione sacra in veste drammatica, sensuale ed erotica, generando una sorta di mix dai bagliori grotteschi non facile da rendere sulla scena. E’ pertanto fruito più come lettura, assicurandosi nel tempo larga fama ma rara rappresentazione. Un plauso, pertanto, va a chi si cimenta nell’impresa.
Lo ha fatto di recente il regista Luca De Fusco, in un suo adattamento basato sulla traduzione di Gianni Garrera, per il Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Teatro Stabile di Verona.
In questi giorni (26 febbraio-3 marzo) ha fatto tappa al Nuovo di Verona, quale penultimo appuntamento della rassegna “Il Grande Teatro”.
Il regista coglie soprattutto la componente onirica, notturna e fantastica della storia, in una stilizzazione che trasforma personaggi in icone e narrazione in mito, con l’ulteriore aggiunta, nel finale, di un suo inedito contributo alla versione biblica, già ampliamente riveduta e corretta da Wilde. La scena (di Marta Crisolini Malatesta) è dominata da un’enorme luna, simbolo per antonomasia di una femminilità misteriosa e ambigua (le installazioni video, referenti alla prigionia del Profeta, sono di Alessandro Papa), mentre i costumi (pure della Malatesta) si ispirano a un dark moderno che si ammanta di memorie klimtiane e déco nel look della coppia regale Erode-Erodiade. Total white, invece, per Salomé, costume fasciante come un sudario la figura seducente, inglobando pure la capigliatura, nascosta sotto una preziosa candida cuffietta, e il viso, coperto da un pesante bianchissimo cerone. Così è più che sottolineata la natura di “fiore lunare” e “creatura di morte” della fanciulla che, sensualità distaccata e inquietante erotismo, nella versione del regista sublimerà il suo odio-amore nei confronti del Profeta (un imponente Giacinto Palmarini quale Iokanaan) nel nichilismo di un devastante amore di sé. Ma, secondo noi, il pregio maggiore dello spettacolo, decisamente raffinato e per palati fini, è l’aver reso l’atmosfera di amore malato e di morte incombente, di cui il testo è impregnato, nell’eleganza di una distaccata stilizzazione. Che permea anche i passaggi più morbosi, ed elude persino i facili ammiccamenti che potrebbe generare la celebre danza che tanto incantò il “tetrarca” Erode.
Da non sottovalutare, inoltre, dal punto di vista tecnico per la resa globale, l’efficacia delle luci — tra il surreale e il metafisico — di Gigi Saccomandi, e delle musiche di Ran Bagno, che includono anche ritmi di tango, danza struggente di incoercibile sensualità. Ma fondamentale resta soprattutto il contributo attorale. Magistrale quello dei due protagonisti: Gaia Aprea, perfetta dark lady quale voluta, algida e pervicace, dal regista, e Eros Pagni, un Erode speciale dai variegati accenti, nevrotico, riflessivo, autoironico. Bene anche tutti gli altri, tra i quali Anita Bartolucci (Erodiade) e Gianluca Musiu (Giovane siriano) nelle ordinate coreografie dell’aiuto regista Alessandra Panzavolta.
Applausi.
Franca Barbuggiani
Visto il 26 febbraio