Il 12 maggio siamo tornati al Modus, il grazioso teatro appena dentro le mura della città di Verona, nel quartiere di San Zeno, prima fatiscente edificio comunale, ora ristrutturato e pensato non solo come teatro ma come un luogo accogliente.
Appena varcata la soglia, ci s’immerge in un’atmosfera d’altri tempi, tra gli autori della nutrita libreria a disposizione del pubblico, gli artisti che si succedono in palcoscenico, gli spettatori e gli ospiti ai tavolini della saletta bar.
Il Modus ci accoglie con empatia, come una ventata d’aria fresca in una città troppo spesso soffocata da banalità e da lussi appariscenti che poco si confanno all’esigenza reale di comunicazione.
Si staglia netto, gioiellino solitario, ad invitarci a percorrere altre strade, forse più tortuose e difficili, ma certamente intimamente più appaganti, le stesse che Andrea Castelletti, direttore artistico del Modus e artefice della sua nascita, non ha esitato ad affrontare nella sua visionaria lungimiranza, tra le mille comprensibili difficoltà economiche e burocratiche dell’essere una realtà indipendente, senza sovvenzioni.
Nel fitto calendario dei suoi eventi ci aveva incuriosito questa data del 12 maggio: “La morte di Ivan Il ‘ic” di Lev Tolstoj, interpretata da Renato Perina, con accompagnamento alla fisarmonica di Giuseppe Zambon, un testo che indovinavamo ricco di spessore e fertile sul piano della resa teatrale: il protagonista ripercorre la propria vita, le aspirazioni, le scelte, il succedersi dei fatti e di fronte alla morte, conosciuta ma imprevista, si interroga e si denuda.
La lettura del racconto si snoda agile, leggera e man mano che procede quasi per connessioni logiche casuali, larghi sguardi ad abbracciare la realtà soprattutto esteriore del protagonista, via via prende forma, si modella una nuova realtà, quasi per l’azione di un soffio d’aria che scava fino a delineare nuove forme, nuove dimensioni, a far emergere il non detto.
Tante le chiavi di lettura possibili di questo testo che nell’evidenziare le rassicuranti coordinate del vivere nel quale ognuno anche oggi si potrebbe riconoscere: soldi, successo, riconoscimento sociale, a dimostrazione di quanto attuale possa ancora essere, rivolge una critica impietosa sociale nel dipingere un quadretto familiare effimero e menzognero, che ne scardina le regole comuni.
Perina nel racconto sofferto e intimista stratifica più sguardi e più domande: il rapporto tra finzione e realtà, tra verità e menzogna, tra esteriorità ed interiorità, tra realtà e percezione, tra coscienza soggettiva ed esigenze sociali, ma soprattutto guida lo spettatore nei meandri della mente dell’autore, lo rende partecipe, riuscendo a creare quell’intimità che fa sì che il teatro si compia, senza forzature, stratagemmi eclatanti, dichiarazioni palesi o tentativi di coinvolgimento diretto, semplicemente con la forza di un respiro, di un soffio.
E a fine spettacolo si applaude timidamente, anche l’ottimo accompagnamento musicale capace di creare le atmosfere giuste, ma non perchè l’attore non lo abbia meritato, ma perchè non viene naturale applaudire dopo avere assistito ad un’introspezione talmente veritiera e dolorosa da esserne ancora intimamente toccati.
C’è bisogno di tempo per metabolizzare, per interrogare noi stessi, confrontarci e riflettere ed è un piacere sapere che esiste ancora un teatro capace di farlo.
Emanuela Dal Pozzo