XXX edizione per la manifestazione estiva che ospita, nel Chiostro Grande di Santa Maria Novella, alcune tra le Compagnie più interessanti del panorama coreutico internazionale. Quest’anno, in apertura di Festival, una compagine israeliana che, insieme a Batsheva (il cui ensemble giovane sarà anch’esso protagonista nella serata del 20 luglio), è tra le più note e apprezzate a livello mondiale.
Per l’intero mese di luglio il Festival proseguirà con grandi nomi.
A Firenze potremo respirare un tocco d’Oriente grazie alla presenza di T.H.E. Dance Company, ensemble di Singapore che salirà sul palco il 6 luglio per l’ultima tappa del tour europeo di Invisible Habitudes; i Trocks, Compagnia tutta al maschile, che unisce alla grande perizia tecnica un’innata autoironia, sarà protagonista della serata del 9 luglio con Il Lago dei Cigni e altri balletti; il 23 e il 24 luglio ci saranno i due appuntamenti con Serhij Polunin, danzatore ucraino che si è esibito nei maggiori teatri d’opera del mondo, dal Bol’šoj alla Scala di Milano, e a Firenze proporrà La Sagra della Primavera di Igor’ Stravinskij; e gran finale con la Compagnia Zappalà Danza, il 30 luglio, con Instrument Jam – ultimo tassello in ordine di tempo della reinterpretazione della terra siciliana firmata dal coreografo Roberto Zappalà.
Ma veniamo alla formazione giovane della Kibbutz Contemporary Dance Company che, nel complesso, non è sembrata all’altezza della sua fama.
Più che di un lavoro organico, 360° ha dato l’idea di un medley di passi a due, a tre e dell’intero ensemble, senza un autentico fil rouge a tenerli legati. Dal punto di vista strettamente tecnico si è notata una certa difficoltà a mantenere la sincronia. Ma ciò che ha convinto di meno è stata la poca pregnanza del gesto in se stesso, una certa incapacità dei movimenti a tessere discorsi di senso compiuto. Questa è, purtroppo, una caratteristica che si nota ormai frequentemente in Italia – dove i coreografi, alla continua ricerca del gesto originale, hanno perso di vista due fattori basilari. Il primo è l’impianto drammaturgico. Il secondo, il fatto che se la danza contemporanea ha liberato il corpo dalle posizioni imposte dal balletto, non può però prescindere dalla corrispondenza del corpo a una comune matrice antropologica e a un determinato modello culturale. In altre parole, se la risata è espressione di allegria in Occidente e di imbarazzo in Oriente, non si potrà far sorridere un danzatore mentre affronta un mo(vi)mento tragico. Ovviamente l’esempio è banale ma serve a spiegare in parole semplici un assioma imprescindibile.
Se il gesto è la parola e il passo a due un intero dialogo, sarà auspicabile che ogni gesto, presa, posizione o movimento nello spazio collabori a esprimere la medesima tensione emotiva, a raccontare la medesima storia, o ancora a trasmettere il medesimo concetto. Purtroppo, la danza contemporanea, almeno in Italia – ma la Kibbutz non ne sembra esente – pare rifuggire dalla costruzione di universi di senso per regalare coreografie sempre più votate a una ricerca estetica fine a se stessa.
Simona M. Frigerio
Visto a Firenze, nell’ambito del Florence Dance Festival, lunedì 1° luglio 2019