Una messa in scena inconsueta quella pensata da Hugo De Ana per la Carmen di Georges Bizet, in scena all’Arena di Verona per l’Opera Festival 2019, opera in quattro atti, libretto di Hanri Mehilac e Ludovic Halèvy , che il regista ha pensato di ambientare nella Spagna degli anni ’30 in un momento storico di preparazione al franchismo.
La scelta avrebbe una ragione d’essere visto che i protagonisti della vicenda si muovono in uno sfondo diviso tra militari e contrabbandieri e si trovano a scegliere tra onestà/legalità e libertà/trasgressione, trascinati dall’impeto della passione e dell’amore. La collocazione in un momento storico di transizione, di contraddizioni, dubbi e spinte in direzioni antitetiche avrebbe potuto acuire maggiormente la tragicità dei personaggi e i conflitti delle loro scelte, purchè questa direzione non mettesse in ombra la vicenda originariamente scritta, come ci sembra sia successo: una forzatura “politica” di affermazione di diritti, come esplicitamente dichiarato dal regista, che, indipendentemente dalla giustezza della causa, probabilmente non erano nelle intenzioni originarie dell’opera.
La versione d’impronta cinematografica dell’opera, con quadri pseudorealistici d’insieme e scelte scenografiche con trasposizioni di pezzi di realtà allusivi a spazi precisi ( le transenne dell’arena di Siviglia in cui combatte il torero Escamillo, i divisori metallici allusivi a più ampi confini tra il lecito e l’illecito ma che forse ci ricordano tempi ben più attuali) non aiutano ad animare una vicenda che pare rimanere fissa e imbrigliata.
Il più importante a soffrirne è il movimento, corale e personale, dei protagonisti della storia, movimento di scena impedito dalla moltitudine di oggetti, mobilia, veicoli e persone presenti in palcoscenico, quasi ci si fosse preoccupati di riempire gli spazi senza poi troppo preoccuparsi della loro gestione.
Ne soffre anche la coreografia di Leda Lojodice, spesso relegata ai lati esterni del palco areniano e che rimane sbiadita evocazione stereotipata di una gestualità stancamente estetica piuttosto che emotivamente pregnante, mentre risulta piacevole il coro danzato di voci bianche A.Li.Ve diretto da Paolo Facincani, coordinatore del ballo Gaetano Petrosino.
Ne soffrono i momenti corali, centrali in quest’opera, che abdicano ad una propria autonomia in favore di un “seppiato” sfondo indistinto e sbiadito: manca la cura del dettaglio, la necessità del gesto, con il risultato che la descrizione sommaria diventa più importante dell’azione scenica, nonostante il buon quadro luci di Paolo Mazzon.
Qualche respiro vivificante a tratti giunge dalle scalinate dello sfondo, finalmente utilizzate in modo interessante da gruppi di persone e dalle suggestive immagini proiettate ( projection design Sergio Metelli), utilizzo poi purtroppo appesantito da didascalie e da finali effetti speciali, rispetto ai quali ci si chiede se davvero fossero necessari o piuttosto non fosse stato meglio utilizzare le abbondanti risorse già a disposizione indirizzandole al meglio.
Delineato lo sfondo abbastanza uniforme, il cast, e soprattutto Carmen, la protagonista, avrebbe potuto fare la differenza, un cast che comunque nel complesso regge bene, anche tenendo conto di esordi e giovani promesse.
Le ragioni della scelta di un personaggio così diverso dalla Carmen cui siamo abituati ce le spiega il regista nelle note di regia quando dice :”….(Carmen) è una donna “terra”, che più che sedurre produce paura nell’uomo, che non vuole confrontarsi con la vera realtà della donna: essere umano libero e intraprendente”.
In effetti la Carmen di Ksenia Dudnikova, sposandosi con la morigeratezza dello sfondo, non rompe nessun canone, se non a parole. La provocazione sensuale propria del personaggio sembra più appartenere alla sfera intima – i momenti più intimistici sono quelli in cui Ksenia Dudnikova, dotata di bella versatilità e padronanza vocale, dà il meglio di sé – e va a perdersi quel misterioso fascino del personaggio dalle tante sfaccettature maliziose, intrigante ed estroverso che dovrebbe irrompere in scena come fulmine a ciel sereno: l’intelligenza non cozza con l’avvenenza, come dimostrano le due amiche di Carmen: Frasquita (karen Gardeazabal) e Mercedes (Clarissa Leonardi) meritevoli di essere menzionate.
Buona prestazione quella di Martin Muehle, nelle vesti di Don Josè, anch’egli come Ksenia Dudnikova al proprio debutto areniano.
Perfettamente centrato il personaggio di Micaela ( Ruth Iniesta) che, ben calata nel personaggio, passa dall’iniziale fragilità/timidezza alla coraggiosa veemenza.
A proprio agio Erwin Schrott nei panni di Escamillo, mattatore nella scena un po’ sopra le righe. Bene anche gli altri: Nicolò Ceriani (Dancairo), Roberto Covatta, (Remendado), Gianluca Breda (Zuniga) e Italo Proferisce (Morales).
Buono anche il Coro diretto dal Maestro Vito Lombardi.
Precisa e accurata la Direzione dell’ Orchestra areniana di Daniel Oren.
Emanuela Dal Pozzo
Visto il 6 luglio 2019