IMITATION OF LOVE
La prima serata del Festival diretto da Luca Ricci e Lucia Franchi si apre con Imitation of Love, spettacolo che gioca con l’autofinzione (un must per Renato Cuocolo e Roberta Bosetti fin dai tempi di The secret room, agito nella casa di quest’ultima a Vercelli) e che unisce due realtà teatrali che si muovono in maniera trasversale rispetto ai circuiti e agli stilemi del teatro contemporaneo, Cuocolo/Bosetti e Officine Papage.
Lo spettacolo, scandito dai round di un immaginario incontro di boxe, ruota intorno ai testi di una serie di lettere – mai spedite – che spaziano tra i ricordi, i rimproveri, le frustrazioni e le incomprensioni che contraddistinguono, molto spesso, il rapporto genitori/figli, partendo dal punto di vista dei figli e dall’ammissione di un’impossibilità, oggettiva e soggettiva, di conoscere l’altro da sé.
Marco Pasquinucci e Roberta Bosetti offrono un’ottima prova attoriale e il riferimento al sacrificio di Isacco, dal quale prende le mosse l’intero srotolarsi delle memorie, personali ma al contempo condivisibili e, quindi, universali, ha una sua pregnanza – come sempre avviene quando si affronti l’archetipo. Ciò che convince meno è tutto ciò che circonda questo nocciolo drammaturgico. Il ring, adombrato (e ormai abusato), non c’è (forse a causa della location, ossia il chiostro del Palazzo delle Laudi). E la mancanza di quel ring e di un confronto sempre più serrato tra le invettive e l’insofferenza per il Caro Padre e la Cara Madre si fa sentire, soprattutto a livello di tempi e di ritmi che non riescono mai a raggiungere un autentico climax.
SHAKESPEAROLOGY
A seguire l’ultimo gioiellino dello scrigno di Sotterraneo, Shakespearology, interpretato da un magnifico Woody Neri – sempre in parte e mai mattatore – che dimostra quanto sia indispensabile una solida preparazione attoriale prima di salire su un palcoscenico, e come si possa poi scardinarla, padroneggiandola appieno.
Come una cipolla, l’ultimo spettacolo di Sotterraneo va pelato con cura perché possiede una serie di stratificazioni che lo rendono appetibile ai più diversi palati ma, nella loro complessità ben calibrata, hanno altresì la ricchezza di un bouquet da buongustai.
All’apparenza pop, con quel mix arguto di voci in stile Gialappa’s Band (interpretate da Sara Bonaventura, Daniele Villa e Claudio Cirri) e i rimandi musicali all’universo queer, pian piano mostra nuove facce: dal racconto epico del teatro elisabettiano al roast di un personaggio emblematico (ricordiamo l’Orson Welles Roast di Battiston ormai una decade fa), dalla tradizione del cunto in grado di ricreare interi universi al to play, inteso come tempo di gioco del fanciullo eracliteo. E ancora il j’accuse potente contro un mondo contemporaneo che ha svilito il lavoro dell’artista (ma anche di chiunque sia impegnato nella cultura in senso lato) riducendolo a hobby, gerantendo pari dignità all’amatoriale e al professionale, al volontario che fa un’esperienza di vita e all’attore, regista, scrittore o coreografo che dedica l’intera esistenza a quel preciso settore, impegnando il proprio tempo, investendo il proprio futuro, e pagandosi (prosaicamente) le bollette di luce e gas con i relativi compensi – sempre più magri.
Divertente, intelligente, con un ritmo preciso come quello di un orologio, in grado di far sorridere e pensare. Mai pedagogico eppure enormemente istruttivo.
FLY ME TO THE MOON
In chiusura di serata, alle 23.00, nel Chiostro di Santa Chiara va in scena Fly me to the Moon di Arditodesìo. Molto interessante – vista anche la ricorrenza dei 50 anni dall’allunaggio – l’incipit: raccontare il dietro le quinte di quel momento che incollò allo schermo televisivo milioni di persone in tutto il mondo (prima dei format transnazionali e dell’epoca dei social).
Lo spettacolo scorre lungo due rotaie, ovviamente parallele: la vita della moglie di un astronauta e, comunque, la condizione femminile prima del ‘68 e delle sue rivendicazioni di genere, e il racconto epico-scientifico delle missioni Apollo.
Sebbene l’accuratezza scientifica sia encomiabile il problema sorge nell’impossibilità delle famose rette convergenti. I due piani, in altre parole, non riescono a fondersi tranne nella scena in cui si descrive la formazione della Luna, scientificamente attendibile e, al contempo, poeticamente valida. Usare il teatro come veicolo di messaggi scientifici non è di per sé uno sforzo vano. Al contrario. Il teatro accetta qualsiasi narrazione ma bisogna essere in grado di usare il suo linguaggio e la scena suddetta lo dimostra appieno; laddove il resto dello spettacolo rischia di deviare eccessivamente nel rapporto personale influenzato dai canoni televisivi o, al contrario, nell’enunciazione pedagogica. Fornire, forse, meno informazioni (visto anche che ci si trova a teatro e non in un’aula universitaria), intessute meglio nel discorso di coppia, ovvierebbe a questa dicotomia.
Piccolo inciso: il racconto entusiastico delle prodezze del pilota che vola a bassa quota per spaventare un tronfio senatore Us, non può che sollecitare alla memoria la strage del Cermis e la vergognosa assoluzione di pilota e navigatore statunitensi che, volando per bravata proprio a quota troppo bassa, tranciarono il cavo della funivia provocando la morte di venti persone.
Simona M. Frigerio
Visti a Kilowatt Festival, Sansepolcro, sabato 20 luglio 2019.