La prima produzione italiana di un’opera del drammaturgo, regista e interprete uruguaiano Sergio Blanco, Tebas Land, ha debuttato da pochi giorni a Firenze. A firmare la traduzione un fine cesellatore della lingua come Angelo Savelli, che segue anche la regia, mentre sul palco si passano la palla un Ciro Masella, sensibile e in parte, e un Samuele Picchi, bravo a destreggiarsi nel doppio ruolo fino a scivolare in un io indistinto che non permette di discernere tra interprete e personaggio (così come prevede la poetica dell’autore).
Lo spettacolo, infatti, è un chiaro esempio di autofinzione, e anzi sembra quasi un racconto paradigmatico di come funzioni il genere, ma anche di come si costruisca un personaggio e dei limiti della rappresentazione di fronte alla realtà. Il genere prediletto da Blanco, quindi, si sposa ottimamente agli intermezzi metateatrali che, insieme al finale, sono le parti più convincenti dell’intero spettacolo. Da notare altresì l’illuminazione della platea, negli ultimi minuti di performance, che rende noi stessi, spettatori, partecipi più o meno consapevoli del gioco teatrale. Siamo semplici osservatori o protagonisti?
Forse ciò che convince meno non è tanto l’indagine sulle motivazioni di un parricidio, che restano pur sempre personali perché è tuttora valido il tolstojano: “Tutte le famiglie felici sono simili tra loro; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”; bensì il passaggio da un rapporto professionale e utilitaristico tra lo scrittore e il carcerato a un’ossessione sempre più intima ed empatica in grado di comunicare, allo spettatore, quella vertigine etica ed emotiva che coglie chiunque perda la cognizione di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. L’autofinzione apparirebbe genere adatto a sottolineare quanto il confine sia sottile e labile. Eppure l’empatia verso il parricida non sgorga. E questo perché la costruzione formale, seppure impeccabile, fagocita in qualche modo il contenuto. La magia de I fiori del male o la Celebrazione della violenza applaudito in primavera a Bologna, dove la forma si rispecchiava nel contenuto e viceversa, qui non si crea. In altre parole, non si genera quel cortocircuito emotivo che assale, ad esempio, leggendo il capolavoro – e la nemesi – di Truman Capote, ossia In cold blood.
Si comprende e si giustifica Martino, in quanto non si è di fronte a un Pietro Maso, bensì a un ragazzo maltrattato cresciuto da un padre violento che, di conseguenza, identifica il rapporto affettivo e familiare con la sopraffazione, il sopruso e il dolore. Come si scriveva: il personaggio è psicologicamente credibile. Nondimeno – forse a causa della fascinazione esercitata dalla costruzione metateatrale e dalla stessa autofinzione – la modificazione del rapporto che prendeva forma, nel libro, tra Truman Capote e Perry Smith, e che obbligava qualunque lettore a vedere con occhi diversi l’assassino fino a prenderne le parti, qui non ha la stessa incisività.
Resta una tra le molte sfaccettature, o stratificazioni, di un solido lavoro drammaturgico.
Simona M. Frigerio
Tebas Land. Visto al Teatro di Rifredi di Firenze, sabato 12 ottobre 2019.