A volte occorre ricordarlo, ma compito di ogni festival dovrebbe essere quello di trasmettere in un tempo relativamente breve, in questo caso circa un mesetto dal 26 di settembre al 20 di ottobre, spettacoli di alto profilo musicale e teatrale e comunque in linea con il nostro tempo, in modo da catturare la curiosità anche di un tipo di pubblico che, magari distratto in merito alle proposte della più canonica stagione, può restare invece incuriosito dalle svariate e capillari offerte di una manifestazione che, scendendo dalle tavole del palcoscenico, può incontrare e conoscere nelle strade della sua città. In questo senso l’evento si è posto in modo orizzontale, affiancando agli spettacoli numerosi appuntamenti che ne animavano le vie e le piazze.
Come detto, soprattutto in un caso come quello parmense in cui il tema del festival si concentra sulla figura e l’opera del grande compositore, sarebbe interessante in un futuro che agli allestimenti fossero aggiunti ancor più momenti d’incontro, quali mostre o convegni internazionali, per approfondire un universo quale quello verdiano che si rivela, ad ogni occasione, ben lungi dall’essere esaurito.
Proprio per questo motivo risulta necessario che gli spettacoli, presentati in questo ambito, evidenzino chiavi di lettura interpretative sempre diverse insieme alla riproposta di edizioni poco note, nell’ambito di una sensibilità sempre più teatrale ed innovativa in continuo dialogo con allestimenti storici che, in maniera intelligente ed aperta, ne ripropongano invece la tradizione.
Le produzioni de“I due Foscari”, “Luisa Miller” e “Nabucco” da me seguiti, sembravano infatti corrispondere a tre distinte linee di pensiero, sempre più definite e ricercate da pièce a pièce: una lettura incerta e solo in parte convincente per i Foscari, un impianto scenografico fortemente impattante ed emozionale per la Miller, una drammaturgia completamente nuova che si serve dei temi fondamentali dell’opera per il suo farsi strumento di denuncia per Nabucco.
Ma andiamo per gradi .
I DUE FOSCARI
Per l’opera giovanile di Verdi “I due Foscari” il regista Leo Muscato imposta uno spettacolo incerto. All’interno di uno spazio scenico, delimitato da un semicerchio che grazie ad un movimento al suo interno cambia immagini e significati, si muove un universo che da principio sembra ricordare il pieno Ottocento (e lo stesso Foscari morente, spogliandosi del manto dogale apparirà quale il Giuseppe Verdi della tradizione, così abilmente ritratto da Boldini), ma che in realtà non osa discostarsi da una lettura sostanzialmente convenzionale. Gli spunti ci sono, molti ed interessanti (cito su tutte la scena del carcere di Jacopo dove sono le stesse catene a trasmettere l’idea della prigione), ma sembrano non convergere in un linguaggio unitario e teatralmente convincente.
Sul palcoscenico Vladimir Stoyanov metteva a disposizione del Doge Francesco Foscari il suo timbro morbido e la sua tecnica eccellente anche se restavano lontane dalla sua, pur professionale e più che buona caratterizzazione del personaggio, gli innumerevoli sotto testi che Verdi dissemina in partitura per tratteggiarne il complesso carattere.
Il soprano Maria Katzarava, certo in possesso di una vocalità imponente, era molto lontana ad un suo uso più sensibile ed attento ed anche tecnicamente non sempre riusciva a ben padroneggiare l’assai impegnativo ruolo di Lucrezia Contarini.
Sempre in evidenza per la bellezza ed il nitore del timbro personalissimo il tenore Stefan Pop, nonostante qualche affaticamento durante la I scena, portava assai bene a termine la recita, affiancando un sapiente uso del fraseggio ad un’attenta sensibilità musicale nel tratteggiare il personaggio di Jacopo.
Completavano il cast: Giacomo Prestia (Loredano), Francesco Marsiglia ( Barbarigo ), Erica Wenmeng Gu (Pisana),Vasyl Solodkyy (Fante) e Gianni De Angelis (un servo).
Il M° Paolo Arrivabeni dirigeva la Filarmonica Arturo Toscanini con giusta professionalità ma con un altalenante equilibrio nelle sonorità.
LUISA MILLER
Per “Luisa Miller” il regista Lev Dodin puntava su di un allestimento totalmente immersivo, ambientando l’opera ( vero e proprio cantiere musicale in cui Verdi cominciò ad impostare alcuni temi centrali della sua drammaturgia ) in un cantiere vero e proprio, quello della Chiesa
di San Francesco del Prato. Idea indubbiamente felice, essendo “Luisa Miller” partitura in cui il sacro è continuamente presente anche se grondante di una soffocante e plumbea significante.
Dunque una chiesa, una chiesa che era un ex carcere, uno spazio invaso da una fitta rete di tubi che costruisce una seconda architettura, palpabile, vera, fredda, che sembra assemblata attraverso la sofferenza stessa che vedremo in scena, in cui è negato tutto ciò che sembra esaltato, l’amore come la morte. Un’idea ottima che ingloba tutto il messaggio registico e che emerge proprio attraverso l’espressiva staticità dei personaggi in scena, quasi protagonisti di tableaux vivants evocanti i polittici del Medio Evo.
Nella sua immobilità tutto palpita e coinvolge, anche attraverso una realtà ed un progetto in continuo divenire che sposa spazio scenico e monumento artistico in un insieme uniforme e dialogante. Uno spettacolo realmente potente che trova i suoi inciampi solo nello spazio dedicato al pubblico, che dovrà certo essere ripensato per un futuro, ed in un’acustica non certo eccellente.
Francesca Dotto tratteggiava una Luisa molto interessante nella sua giovanile irruenza. La vocalità si piega molto bene alle esigenze del carattere esprimendone, anche attraverso l’uso di sapienti ed espressive mezzevoci, la sofferenza ed il sacrificio. Affatto convenzionale il personaggio risulta centrale e mai monotono, perfettamente sposandosi con un’idea di teatro che Verdi stava costruendo attraverso potenti carattere e contrasti.
Uno di questi è certo Miller, assai ben interpretato dal baritono Franco Vassallo che, attraverso una timbrica morbida ed avvolgente, riusciva a ben veicolare questa intensa figura, profondamente delineata, che sembra già rimandare alle possenti figure paterne, cardine della drammaturgia verdiana.
Il tenore Amadi Lagha nonostante il timbro interessante non riusciva a sostenere pienamente il centrale ruolo di Rodolfo, relegandolo ad un’interpretazione sia vocale sia scenica sostanzialmente monocorde.
Bene Martina Belli quale Federica mentre un po’ stirata appariva la vocalità del conte Walter delineato con estrema sensibilità espressiva dal basso Riccardo Zanellato.
Completavano il cast: Gabriele Sagona (Wurm), Veta Pilipenko (Laura), Federico Veltri (un contadino).
Il M° Roberto Abbado dirigeva con professionalità e misura ma senza guizzi l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna e bene si portava anche il Coro del Comunale diretto dal M°Alberto Malazzi.
NABUCCO
Se ne “I Due Foscari” e “Luisa Miller” la drammaturgia restava sostanzialmente immutata ( a parte l’omicidio di massa al termine di Luisa che, proprio perché isolato, non trovava una sua reale significante ) in “Nabucco” tutto cambiava e l’operazione si faceva più complessa pur nella sua coerenza drammaturgica.
Il regista Stefano Ricci ci chiede di scordare il libretto di Temistocle Solera o anzi di isolarne le più semplici linee teatrali. Un dittatore, un popolo oppresso, due amanti, un usurpatore, un doppio colpo di stato ed una chiusura. La regia parte da qui e dal tessuto musicale verdiano che tutto veicola con estrema potenza ed, a tratti primitiva, energia.
L’azione si sposta dunque in un futuro non troppo lontano dove una nave, guidata da un dittatore, solca i mari in una civiltà ormai schiava di se stessa e di ciò che ha realizzato, che distrugge libri, che lascia annegare i dissidenti, senza più un’anima né una mente che può guidarla mentre un’usurpatrice vuole per sé il potere per impossessarsi della bellezza passata e delle tradizioni di quel popolo dominato e dimentico di se stesso.
Una traccia drammaturgica lineare, scenicamente realizzata attraverso la creazione in palcoscenico dell’interno di una nave da guerra, che muta nel II Atto visualizzando il contro regno di Abigaille, riccamente vestita e regina dei social in uno spazio in cui l’albero di Natale diventa simbolo di una tradizione forte e comoda, da esibire, così come le opere d’arte, ancora imballate.
Un impatto ideologico forte che l’abusato uso dei mimi ha contribuito, in alcuni momenti, a complicare, creando ulteriori letture parallele e che sarebbe stato invece potenziato da un loro uso più concentrato in poche topiche scene ( la visualizzazione della distruzione meccanica dei libri e l’evocazione metaforica della morte dei profughi ).
Una visione diversa della partitura verdiana che certo non lascia indifferenti e può risultare sgradita (ma non sacrilega) ma che pone alcuni interrogativi umani fondamentali, ponendoli al centro della narrazione musicale.
Molto buono il cast impegnato in palcoscenico.
Il Nabucco di Amartuvshin Enkhbat si impone per una vocalità sempre rotonda, morbida e dal timbro veramente notevole così come l’attenta Abigaille tratteggiata da Saioa Hernandez che, con il suo potente strumento, riesce a tratteggiare, con giusta misura, un personaggio che in realtà ne è totalmente privo.
Dal timbro non bello ma interessante per musicalità e giusto fraseggio lo Zaccaria delineato da Ruben Amoretti; professionale l’Ismaele di Ivan Magrì mentre Annalisa Stroppa cesellava una Fenena di lusso.
Completavano il cast: Gianluca Breda (Gran Sacerdote di Belo), Manuel Pierattelli (Abdallo) ed Elisabetta Zizzo (Anna).
Il M° Francesco Ivan Ciampa dirigeva con vigore, ottenendo giuste sfumature e colori dalla Filarmonica Arturo Toscanini.
Ottimo il Coro del Teatro Regio diretto dal M° Martino Faggiani che ha, meritatamente, bissato il celeberrimo “Va pensiero”.
Decisamente un ottimo riscontro di pubblico ( italiano e straniero ) per questo Festival Verdi che speriamo nei prossimi anni possa acquisire ancora maggior completezza e varietà nelle proposte.
Silvia Campana
Parma, 17/19/20 ottobre 2019