Perplessità e disappunto per la messa in scena dell’opera “Elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, libretto di Felice Romani da La Philtre di Eugene Scribe, in scena al Teatro Filarmonico di Verona, una ripresa dell’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino, per la regia di Pier Francesco Maestrini.
Colpo di spugna sull’originaria ambientazione storica del primo Ottocento e spostamento del tutto nel Midwest degli anni ‘ 70. Rimane lo sfondo rurale a creare la continuità, ma è evidente che “saltano” i linguaggi, parte integrante e fondamentale di ogni opera, i simboli scenici spesso evocativi sui quali si appoggiano le emozioni dei personaggi e si innestano i conflitti, i tormenti che accompagnano la trama e che vengono sostituiti spesso, in queste disinvolte rivisitazioni, da scene, modalità, atteggiamenti dell’ovvietà contemporanea, stridendo con i libretti originali, mentre spesso l’interpretazione musicale cerca di allinearsi alle scelte di regia, piuttosto che restituire le originali atmosfere e afflati del compositore dell’opera.
Allora la domanda sorge spontanea. Perchè? Cosa induce ad attualizzare un’opera decontestualizzandola? Questa volta abbiamo cercato di capirlo dall’intervista rilasciata dal regista Pier Francesco Maestrini ad Angela Bosetto che in verità, oltre a parlare di “ avvicinamento alla sensibilità dei nostri giorni”, non dà giustificazione della scelta, ( perchè proprio gli anni ’70 e proprio il Midwest?)se non per citare una serie piuttosto lunga di films dai quali ha tratto spunto: “ Hazzard”, Animal House” di John Lendis, “Full Metal Jacket “di Stanley Kubrick, per un allestimento, citando le parole del regista “rivolto alla cultura cinematografico-televisiva e che fa leva su elementi del nostro immaginario collettivo”.
E ciò che fa leva sul nostro immaginario collettivo, squallido e pieno di luoghi comuni, non manca: dalle quattro giovani ballerine che in abiti succinti lavano l’auto di Dulcamara, con richiami a certa pornografia di bassa lega, a scene di sesso esplicito di una coppia seminuda distesa a fondo scena, oltre l’insegna di un caffè, ai costumi eterogenei e poco pregnanti ( Luca Dall’Alpi) che sembrano pensati per potersi spogliare e “mostrare” velocemente. Nè mancano le citazioni televisive dichiarate dal regista: sulle note di Donizetti si balla alla “macarena”, si scimmiottano cantanti, si usa il fischietto, il clacson, fino a cantare al megafono o a inserire pezzi musicali che nulla c’entrano con Donizetti come la Marcia dei Marines, in un calderone di presenze in scena decisamente abbondanti e poco indirizzate, dalle quali ogni tanto si distoglie l’attenzione grazie al virtuosismo di un acrobata e all’ingresso impattante di Belcore e i suoi soldati.
Anche le scene essenziali di Juan Guillermo Nova, più evocative di quegli anni che interessanti, non attraggono né sono funzionali allo svolgimento degli eventi e talvolta sembrano un po’ appiccicate: si fa fatica a credere che la storia di Tristano e Isotta compaia su un giornale e il telefono a gettoni sembra rimanere solo un elemento ad effetto.
Tutto questo perchè? Per avvicinare i giovani all’opera, si dice, o, per essere più espliciti, per commercializzare un prodotto culturale che, pur nella sua leggerezza, come in questo caso lo è quest’opera briosa e a tratti poetica, si pensa non sia più in grado di dire nulla ad uno spettatore medio disamorato alla cultura, alla storia, alla bellezza, al linguaggio dell’animo, quando invece potrebbe rappresentare una delle poche occasioni (ormai) per rincontrare e conoscere il nostro passato, la nostra storia.( La cultura non ha soprattutto questa funzione? La conoscenza della nostra storia non è ciò che ci permette di pensare, confrontare, riflettere, decidere?)
Perchè, diciamolo, a prescindere dalla fedeltà o meno all’opera originale, in queste rivisitazioni moderne le cose che balzano spesso ( speriamo non sempre) agli occhi sono: la superficialità, la mancanza di spessore, la quantità di input che spesso sostituisce la qualità delle scelte; non ci si ricorda nemmeno più la ragione del tradimento.
Fortunatamente il cast regge, anzi gli interpreti sono proprio bravi, nonostante spesso la loro interpretazione assecondi pesantemente questa regia, “disturbando” qualche volta la forza emotiva del proprio personaggio: il Dulcamara di Salvatore Salvaggio è volutamente teatralmente finto e la versatilità a tratti “osata”che ne deriva rischia di penalizzare l’equilibrio del tutto, mentre un Belcore teatralmente esteriore rischia di appiattirsi, anche se abbiamo apprezzato la voce possente di Qianmin Dou. Grande padronanza scenica di Laura Giordano nella parte di un’Adina più che convincente e di Francesco Demuro in un Nemorino sfaccettato e versatile, capace di incantare la platea : bis richiesto di “ quella furtiva lacrima”. Bene anche Elisabetta Zizzo nella parte di Giannetta.
Il Direttore d’orchestra Ola Rudner ha diretto assecondando la regia.
Emanuela Dal Pozzo
Visto il 24 novembre 2019