LIBERE RIFLESSIONI SUL TEATRO CHE NON CI PIACE

Un noto critico che scriveva di teatro qualche decennio fa mi ha confidato di avere assistito a uno spettacolo in cui il protagonista si svenava realmente in scena, resistendo fino allo svenimento. Io stessa oggi mi chiedo, dopo avere assistito a performance in cui la stessa incolumità personale veniva messa alla prova, quale sia il limite fino al quale un attore possa spingersi e in nome di cosa lo faccia.

Già alle soglie del 2000 Leo Bassi entrava in scena sedendosi su un gigantesco trono. Assumendo il ruolo del re invitava il teatro a chiudere le porte impedendo ai propri sudditi/spettatori di scappare, dichiarando che in quello spettacolo avrebbe dimostrata la stupidità dell’uomo. Lo avrebbe poi fatto attraverso tre prove, giocate tra la finzione e la realtà. Lo spettacolo verrà poi censurato per la violenza dei contenuti, non adatti ad un pubblico di minori. Sempre Bassi, negli stessi anni, girerà tra la gente comune, nei locali delle città, invitando le persone ad una sfida nello stabilire il limite di sopportazione personale alle scosse elettriche attraverso l’utilizzo di uno strumento con variazioni di intensità di corrente. ( Quanto è disposto l’uomo a soffrire inutilmente?)

Oggi Rezza, all’interno dei propri spettacoli, provoca direttamente gli spettatori invitandoli a reagire, e impone di  chiudere le porte del teatro qualora uno spettatore decida di abbandonare il proprio posto prima che l’abbia deciso lui, anche fosse a fine spettacolo.

A seguire altri attori e altre Compagnie in cerca di visibilità, nei quali sembra non esserci traccia delle allora interrogazioni meditate di Bassi, e ai quali risulta facile oggi , in nome di una generica “provocazione”, imitare una tendenza che sembra essere vincente, magari giustificandola con pretesti inesistenti.

Si saltella con disinvoltura dentro e fuori dal palcoscenico, senza nessun rispetto per il luogo: lo spazio scenico, lontani dalla consapevolezza del gesto/azione “hic et nunc”, di quanto uno spazio scenico amplifichi di significati tutto ciò che vi avviene,  secondo un concetto di sacralità di un teatro/rito già presente nell’antichità, cui ha attinto molto del teatro contemporaneo, da Grotowski ad Artaud, con nuove sottolineature e significati.

Vince chi urla più forte, chi mostra di fregarsene di quel patto implicito che lega l’attore allo spettatore violandone quell’invisibile confine oltre il quale si entra nello “spazio vitale” dell’altro ( concetto mutuato dalla “teoria del campo” di Lewin). L’attore consapevolmente esercita sullo spettatore il potere che deriva dal metterlo di fronte al fatto compiuto: comando io e tu non hai scampo. Mi autolegittimo a importi le mie idee. Questo palcoscenico diventa il mio comizio, perché io ho il microfono e tu no, io ho il potere e tu no.

Ci pare una cosa molto grave. Non sono più solo disquisizioni di natura teorico formale, estetica o di qualità che riguardano un prodotto teatrale o un’operazione culturale. Saltano in aria i cardini della democrazia, così cara a tutto quel teatro di ricerca che a partire dagli anni ’70 s’interrogava anche sulle modalità di lavoro degli attori, sulla qualità delle loro relazioni nel fare teatro, sul ruolo pedagogico, politico e sociale del teatro stesso.

E se possiamo comprendere ( ma non giustificare) come il teatro delle nuove generazioni oggi possa non essere che lo specchio della società in cui vivono, violenta, utilitarista e patologicamente egocentrica, non comprendiamo come chi, con diversi mezzi culturali, diversa capacità critica e spesso un’età più matura, non ne legga il disagio, il limite e l’insito pericolo.

Emanuela Dal Pozzo

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