di Emanuela Dal Pozzo
“ La grande abbuffata”, produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Metastasio di Prato, con la regia di Michele Sinisi in scena al Teatro Fontana di Milano, per un pubblico in maggioranza giovane, la sera del 17 febbraio, spettatori attenti, che ascoltano oltre le inevitabili comiche banalità della nostra disarmante realtà rappresentata in scena.
Il sesso abbonda, anche quello esplicito, nella cucina abitata dai quattro protagonisti: Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’Addario e Donato Paternoster, poi animata dalla presenza di Sara Drago, Marisa Grimaldo, Stefania Medri e Adele Tirante.
I corpi nudi sono pronti a celebrarlo, eppure non c’è volgarità, né tanto meno erotismo, in questo spettacolo che ridicolizza il sesso, affettandolo con precisione chirurgica e togliendogli così ogni morbosità e ogni passione. Le parti anatomiche sessuali diventano ferri del mestiere e gli atti meccanici ad esso collegati si svolgono in un clima asfittico, lo stesso richiamato da alcune interessanti riflessioni verbali, dichiarazioni dirette al pubblico, sulla nostra società e in particolare sul teatro post pandemico, ma non solo, che toglie agli artisti spazi e risorse, che soffoca idee e slanci, che non riconosce più all’arte cultura e bellezza ( “ oggi il teatro da politico diventa politicizzato”).
Anche la donna qui non è vittima, ma consapevole artefice della propria autodistruzione, meccanismo di un ingranaggio malato nel quale tutto si consuma.
Non ci sono sentimenti, pathos, intensità emotive, nell’andamento quasi casuale dello svolgersi delle scene, nemmeno introspezioni che vadano a delineare le ragioni dei protagonisti.
Sembra si voglia scardinare anche la logica dei linguaggi scenici, a cominciare dal ritmo che subisce rallentamenti e arresti apparentemente immotivati, all’avvicendarsi delle scene che non sembrano seguire una logica di necessità, in una sorta di sdoppiamento visibile della realtà senza senso in cui siamo immersi, in cui qualche apparente guizzo di finta vitalità e qualche egocentrico e maldestro tentativo di emergere si infrangono nel nulla di fatto.
Il dramma è che non c’è alcun dramma, nel palco adibito a cucina, secondo l’acuta interpretazione del reale di Sinisi. Il maiale con i propri scarti regna sovrano e la drammaturgia di Michele Sinisi, e di Francesco Maria Asselta, e la scenografia di Federico Biancalani, riducono il tutto a una fagocitazione compulsiva.
Ma la rappresentazione/spettacolo stessa, nella piena identificazione con ciò che intende descrivere, si consuma nell’atto stesso del farsi e nulla rimane oltre, contraddicendo così, a nostro avviso, lo spirito di riflessione auspicato dal regista.
Allora la nostra memoria va a quel film memorabile omonimo, cui lo spettacolo si rifa e del quale mantiene il canovaccio, magnificamente interpretato dai quattro straordinari attori protagonisti che decidono di suicidarsi ingozzandosi, capace di indagare l’allora realtà tragicomica e angosciante, cui solo l’ironia donava uno spiraglio di leggerezza.
Sono trascorsi quasi cinquant’anni da quando il regista Marco Ferreri delineava ciò che la propria mente lucida vedeva incombere: una società prossima alla catastrofe, catturando l’attenzione ( e la riflessione) dello spettatore nell’accostamento di quattro personaggi umani, quattro uomini di successo, ma in crisi esistenziale e capaci di raccontarsi.
Nella pellicola cinematografica lo scarto tra ciò che appariva e ciò che era, tra la vita apparentemente normale dei quattro protagonisti e la loro crisi, rimando ad una società fallimentare e sull’orlo del tracollo, era il tratto percorribile dallo spettatore, lo spazio di riflessione che avveniva tra due punti, lungo una distanza, la pausa d’interlocuzione necessaria per comprendere o tentare di farlo. Qui invece tutto si consuma in un tritatutto, anche le belle riflessioni “ postate” e compresse tra citazioni amletiche e scene surreali.
Così anche noi avviamo una riflessione, che riguarda sia il teatro in generale, sia il rapporto tra il teatro e lo spettatore.
Oggi, in un’epoca non di transizione, in cui tutto ci appare davanti, irrimediabilmente compromesso, in cui le avvisaglie catastrofiche di un mondo al collasso sono diventate realtà, esautorando qualsiasi spazio di immaginazione, sbarrando vie di fuga o alternative, è ancora possibile trovare un momento di sospensione, una pausa di silenzio/riflessione, un intuibile “non detto” che consenta a noi spettatori un contributo intelligente?
Forse è’ questa la scommessa che oggi il teatro rischia di perdere: nell’impegno nel descrivere il nostro contesto, dilatando l’attimo, perdere di vista l’intreccio, la complessità dei fili che l’hanno generato, dimenticare la storia ( sono le radici, il passato che ci consentono di guardare al futuro). E una volta esauriti gli argomenti ( e i linguaggi scenici), il teatro finisce per voler stupire con effetti speciali, trasgressioni e provocazioni sempre più azzardate e non sempre oneste nei confronti dello spettatore.
Onestà che invece questo spettacolo secondo noi ancora ha, sia nella coerenza della costruzione di lavoro, sia, soprattutto, nel rispetto che Sinisi dimostra nel ritagliare il proprio spazio scenico senza invadere o aggredire quello dello spettatore.
E questo è già forse l’inizio di un possibile dialogo.