di Emanuela Dal Pozzo
“Quattro movimenti elettrici per Janet Frame” di e con Isabella Dilavello, produzione RaabeTeatro, in scena a Fuori Binario, nuovo spazio teatrale veronese, è un monologo che dà voce a Janet Frame, scrittrice neozelandese, nota in particolare per il volumetto di poesie edite nel 2017 “ Parleranno le tempeste”, ma le cui inquietudini vengono evocate dall’attrice a partire dal suo vissuto, narrato dalla stessa autrice, sia attraverso l’autobiografia che attraverso le sue opere.
Dice Isabella Dilavello: “Il desiderio di portarla a teatro è il desiderio di farla parlare ancora. E’ raccontare la necessità della poesia”.
La narrazione, suddivisa in quattro momenti/movimenti: la relazione con il materno, il dolore del manicomio e gli elettroshock, il riconoscersi come persona e ritrovarne il corpo, la rinascita al mondo, si addentrano nelle esperienze della protagonista, considerata diversa e quindi malata da curare e da riportare alla normalità.
L’attrice, vestita di bianco, come lo possono essere i pazienti di un ospedale psichiatrico, emerge dal buio e occupa la scena in una gestualità essenziale, fatta di piccoli rituali che diventano tic, accompagnati a tratti dal fastidioso ronzio di una mosca, a sottolineare un disagio pervasivo e persistente.
Attenta la regia di Monica Giovinazzi con la consulenza scenica di Paolo Ottoboni, nella costruzione di una scena disseminata di frammenti di specchi ( che rimandano ai frammenti narrativi), di acqua e pochi altri oggetti con i quali la protagonista interagisce.
In realtà, in questa messa in scena minimalista, che Isabella Dilavello tiene con buona presenza scenica, non vi è una vera e propria narrazione che conduce lungo un itinerario consequenziale. La narrazione diventa un serbatoio/contenitore nel quale fluiscono le immagini interiori della protagonista, le sue paure, le sue aspirazioni, gli accadimenti che trasformano il suo corpo.
Il ritmo narrativo è continuamente sovvertito, frantumato, modulato nella voce che sembra cercare nuovi anfratti e nuove sfumature piuttosto che cambi di registro; le frasi diventano l’alloggio delle parole dilatate nel proprio significato; il dettaglio s’impone sullo sfondo e il tutto si ricompone alla fine, una volta destrutturato il contesto, con l’assemblaggio dei dettagli.
E’ un modo diverso di porsi in scena, che costringe lo spettatore/osservatore ad attivare i sensi, a non fidarsi della costruzione narrativa di un discorso nella propria implicita sequenzialità, ma a soffermarsi sull’analisi dei singoli frammenti.
Ma è anche un modo per celebrare il linguaggio poetico e di come una parola, una pausa o un non detto possano acquisire nuovi e diversi significati, una modalità interpretativa capace di tenere insieme intelligentemente quindi il tema della poesia, quello della follia e quello più ampio del linguaggio, non dando nulla per scontato, attivando la funzione del dubbio.
Ci sembra anche che la scelta di questa chiave interpretativa collimi con parte delle esigenze del teatro contemporaneo particolarmente attento al presente, al farsi dell’attimo, alla dilatazione del particolare, piuttosto che all’indagine temporale evolutiva passato/presente, cristallizzando però così la realtà in un frammento presente, incapace di essere letto da sufficiente distanza.
Visto il 10 aprile 2022