Torna all’Arena di Verona, anche quest’anno l’Aida “storica” , che riprende quella prima messa in scena areniana del 1913, ispirata ai bozzetti disegnati dall’architetto Ettore Fagiuoli.
L’opera di Verdi in quattro atti, fortunatamente alleggerita quest’anno nella lunghezza da veloci cambi scena e intervalli ridotti, per il libretto di Antonio Ghislanzoni e il disegno luci di Paolo Mazzon, vede la regia di Gianfranco De Bosio, anche se, a nostro parere, non si potrebbe parlare di vera e propria regia, ma piuttosto di attenzione ad una restituzione, in termini di immagini, colori e coralità, a ciò che fu. L’operazione, se rimane apprezzabile sul piano culturale quale recupero di documento storico, lo è meno sul piano della resa scenica. Di fatto oggi, decontestualizzata dalla sensibilità estetica dei primi decenni del ‘900, pregna delle sollecitazioni dell’art noveau e delle spinte verso soluzioni architettonico scenografiche lineari e decorative proprie dello stile liberty, questa messa in scena pare cozzare con la drammaticità della narrazione e dei protagonisti, scissione evidente tra trama e contesto.
Se l’attenzione estetizzante si concentra sulla piacevolezza delle tinte pastello bene armonizzate dei costumi, ispirati a quelli dell’egittologo Mariette, che riprendono, come dalle note scritte dell’opera dell’epoca, gli stessi motivi ornamentali delle colonne, alleggerite in una disposizione scenica di respiro, capace di far spazio ad una coralità di contorno quasi onnipresente, a parlarci della drammaticità degli eventi rimangono gli interpreti, accompagnati nel proprio triste percorso solo dalla Direzione d’Orchestra di Daniel Orel attenta e sensibile, con un’ Aida (Elena Stikhina) sfumata e credibile, un’Amneris (Ekaterina Semenchuk) volitiva e di carattere e un Radames (Gregory Kunde) più suadente che possente.
Nel complesso l’intero cast assolve dignitosamente il compito: Riccardo Fassi nella parte de Il Re, Alexander Vinogradov nella parte di Ramfis, Youngjun Park nel ruolo di Amonasro, Carlo Bosi in Un messaggero e Francesca Maionchi in Una sacerdotessa, accompagnati dal Coro della Fondazione Arena all’altezza, del Maestro Roberto Gabbiani.
Discorso a parte merita il corpo di ballo con le Coreografie di Susanna Egri, che, in accordo con le scelte sceniche e scenografiche e coerentemente forse con i bozzetti di riferimento dell’epoca, è apparso poco incisivo, ripetitivo e spesso decorativo, privilegiando movimenti corali all’insegna della linearità e della semplificazione, piuttosto che la suggestione di atmosfere appropriate. Povere di sentita partecipazione ci sono parse in particolare le scene dedicate al culto ( per quanto pagano), ma anche quelle che accompagnano la scena del trionfo, più decorative e popolate che intimamente connesse.
Un plauso invece all’ultimo atto in cui tutto sembra ricomporsi e torna credibile, anche la danza minimalista delle sacerdotesse in compagnia di Amneris, sopra la pietra tombale, la cui presenza “ super partes” è qui giustificata dall’ineluttabilità degli eventi cui nessuno può sfuggire.
Emanuela Dal Pozzo
Visto il 22/8/2024