ENRICO IV AL NUOVO DI VERONA. RECENSIONE.

In scena al Teatro Nuovo di Verona dal 25 al 30 novembre 2014 “Enrico IV” di Luigi Pirandello, coproduzione di CTB Teatro Stabile di Brescia e Teatro degli Incamminati, per la regia di Franco Branciaroli, anche nei panni del protagonista.

Lo spettacolo apre la Rassegna “Il Grande Teatro” : otto spettacoli in calendario fino a marzo 2015, al Teatro Nuovo di Verona, con la direzione artistica di Gianpaolo Savorelli.

Dramma in tre atti, scritto da Pirandello nel 1921 e considerato uno dei suoi maggiori capolavori, “Enrico IV” ci parla del rapporto tra realtà e finzione, attraverso il gioco della presunta e reale pazzia del protagonista: una pazzia che diventa elemento di gioco in mano a chi la esibisce, capace di tenere in scacco quanti lo circondano, prendendosi contemporaneamente gioco delle convenzioni sociali e dell’autorevolezza medica.

Il protagonista è un nobile. Durante una cavalcata in maschera subisce un incidente sbattendo violentemente la testa. Quando si risveglia nelle vesti di Enrico IV, la maschera prescelta, confonde la finzione con la realtà, comportandosi come il re. La sua pazzia viene assecondata per anni finchè il protagonista rinsavendo scopre che l’artefice del suo incidente ha nel frattempo sposato la sua innamorata. Si vendica uccidendolo ma a questo punto solo la prigionia della pazzia lo può salvare dalla giustizia.

E’ particolare come Pirandello, drammaturgo di notevole spessore ma dai testi verbosi e complessi, ricchi di risvolti e di sfumature che pescano nel profondo, venga spesso messo in scena a teatro con buona disinvoltura, quasi che la firma Pirandello garantisse a prescindere il buon esito dell’evento.

Niente di più lontano a teatro, se pensiamo ad un teatro” agito” e non “rappresentato”, aldilà dell’imprescindibile necessità di attori di ottimo calibro interpretativo e di grande presenza scenica.

Agire i testi pirandelliani, che non suggeriscono immediate concatenazioni di azioni sceniche ma che al contrario dibattono questioni interiori di cambi di stato psicologico, non è operazione facile. Richiede non solo la riflessione sui passaggi più significativi, sulla sottolineatura dei contenuti capace di dare colore alla piece, ma anche sulla modalità “scenica” più incisiva per arrivare nei significati più profondi agli spettatori, anche con il coraggio di invenzione di nuovi linguaggi.

E’ proprio questa la differenza tra un teatro “agito” , capace di rompere gli schemi e i clichè precostituiti che inchiodano l’attore sul palcoscenico e lo spettatore in platea, senza alcuna possibilità di scambio dialettico,( ovvio che non si parla di distanza fisica ma psicologica) e uno “rappresentato” in cui la piece, per quanto bene architettata, come in questo caso, rimane immutabile e impenetrabile in scena, bastando a se stessa.

Né si può pensare che le azioni sceniche, di cui il teatro ha connaturato bisogno per esistere, possano essere rappresentate, come in questo caso, dalla continua gesticolazione dei personaggi, a sottolineatura di ogni pronuncia verbale, quasi a rendere naturale ciò che naturale non è, scelta didascalica che nella migliore delle ipotesi, quando lo spettacolo richiama l’attenzione, risulta noiosa e rallenta i ritmi immotivatamente e nella peggiore delle ipotesi crea figurine a fumetto ridicole e poco credibili, a meno di una scelta registica a priori dichiarata, di cui però non siamo a conoscenza.

E’ lecita anche la domanda su come oggi, nell’era di internet, in una società profondamente diversa da quella in cui Pirandello è vissuto, il suo linguaggio possa “vivificarsi” in virtù del fatto che le sue tematiche sono al contrario estremamente attuali: problema che non si pone ovviamente solo per Pirandello.

E’ evidente che il linguaggio verbale non è sinonimo né di linguaggio, né di linguaggio teatrale. Il linguaggio è veicolo di comunicazione. Sembra una definizione scontata, eppure spesso a teatro disattesa. Non si può fare teatro a prescindere da chi ci ascolta. Se gli spettatori non ci sono il teatro finisce.

Per concludere, come da più parti si dice, non esiste un senso nella suddivisione del teatro tra classico e contemporaneo, tra tradizionale e d’avanguardia, tra “grande” e “piccolo”, quanto piuttosto tra vivo e morto.

Bel dispiegamento di idee ad effetto nelle scene e costumi di Margherita Palli ed efficace il disegno luci di Gigi Saccomandi.

Buono anche lo sforzo di “movimentare” l’ immobilità scenica con dislivelli intelligenti, anche sapientemente agiti a scena aperta, con una bella distribuzione di spazi in quadri flash.

Molti gli studenti presenti, nella replica del 27 novembre, soprattutto in loggione.

Tiepidi applausi, nemmeno unanimi, agli attori: Melania Giglio in La Marchesa Matilde Spina, Valentina Violo in la figlia Frida, Tommaso Cardarelli nel giovane marchese Carlo di Nolli, Giorgio Lanza nella parte del barone Tito Belcredi, Antonio Zanoletti nel dottor Dionisio Genoni, Daniele Griggio nel vecchio cameriere Giovanni e i quattro finti consiglieri segreti: Sebastiano Bottari, Mattia Sartori, Pier Paolo D’Alessandro e Andrea Carabelli.

Applausi più convinti a Franco Branciaroli, capace di tenere la scena in forza del proprio carisma anche nei lunghi monologhi.

Qualche commento strappato all’uscita dagli spettatori di difficoltà di comprensione soprattutto nella prima parte, o di disagio per la lunghezza dei monologhi.

In chiusura di spettacolo Franco Branciaroli informa di promuovere con la Compagnia una raccolta di fondi a favore di una scuola di teatro a Nairobi in Kenia.

Emanuela Dal Pozzo

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