In occasione della terza edizione dei Corti Teatrali, Traiettorie ha avuto il piacere di incontrare Massimiliano Caprara, ideatore e direttore artistico del festival, che dopo 18 anni ritorna a far luce sulle “nuove” proposte teatrali. In questa intervista Caprara ci parla di come è possibile tracciare con il genere del corto tutto il teatro che c’è in Italia.
Nel 1997 hai ideato e sei stato direttore artistico del primo festival di corti teatrali in Italia e oggi a 18 anni di distanza riprende vita al Teatro dell’Angelo. Come nasce l’idea di questo festival?
Massimiliano Caprara: «Il festival, allora come oggi, nasce dall’esigenza di mappare la situazione teatrale esistente ed in particolar modo gli elementi emergenti, per poterne tracciare una definizione, poterla analizzare, studiarne i contenuti salienti e le scelte formali, le tendenze e gli orientamenti.
Una tracciatura che si può fare solo se non v’è a monte un filtro, che attraverso il gusto di una direzione artistica, la scelta limitativa di un tema o peggio ancora, un’ottica clientelare, tutti gli elementi sarebbero inquinanti al momento di analizzare oggettivamente un fenomeno».
C’è un filo che lega le precedenti edizioni del festival a questa nuova edizione. Quali sono le novità e quali le differenze?
M.C.: «Ovviamente il filo sta nel meccanismo di coinvolgimento del pubblico, nel non porre filtri e nel servizio disinteressato che organizzazione e teatro fanno alle compagnie investendo energie e risorse economiche senza chiedere un centesimo alle stesse ed anzi mettendo loro a disposizione un premio un incentivo economico alla loro continuità artistica. Ma anche la curiosità ed il desiderio che si aprano, come allora successe, finestre nuove nel panorama teatrale, persone, idee e stili che possano influenzare e protrarsi nelle stagioni teatrali a venire».
Che cosa è scattato per far riemergere il festival dopo questo periodo di buio e cosa ti aspetti da esso?
M.C.: «Mi sono sentito in dovere di rifarlo. In tutti questi anni ero all’estero (ove assistevo all’espansione del corto teatrale in tutta Europa, importato dall’Italia) e al mio ritorno ho constatato che le infinite copie di questa idea mia erano gestite sfruttando solo l’elemento esteriore (messa in scena di più rappresentazioni brevi per sera e voto del pubblico e di una giuria) ma non lo spirito, le intenzioni le finalità…come a dire solo l’involucro e niente del contenuto. Leggendo poi di spese di segreteria, tasse di iscrizione e quant’altro mi sono indignato, perché è chiaro che a un teatro o ancor più teatrino, l’idea di metter mano a più pubblici paganti in una stessa sera attraverso un (questo) pretesto è stuzzicante e quindi il mio sentimento è stato come quello di chi mette al mondo una creazione e vedendo come viene deformata e speculata cerca di riprenderne il senso e le finalità originali».
Da molti anni si parla di corto teatrale come un nuovo genere drammaturgico, ci puoi dare una sua definizione?
M.C.: «Nel momento in cui vi sono compagnie che si specializzano nel corto, inesauribili festival e rassegne che lo diffondono e addirittura sale teatrali dedicate ad esso direi che è evidente che il corto teatrale compie i requisiti per essere a tutti gli effetti considerato un genere. Che questa innovazione poi provenga dal panorama italiano da sempre giudicato immobile ed asfittico mi sembra un punto di merito ancora maggiore. Ma misconoscere le circostanze sociale e tutte teatrali in quanto lavoro ed orientamento è un errore che va immediatamente corretto e denunciato. Per creare un genere teatrale bisogna avere delle motivazioni e una progettualità ben chiare che devono essere rispettate perché possa essere fruttuoso e incidere positivamente nel panorama teatrale . Il corto ha dato molto e sta cambiando le cose dall’interno del lavoro teatrale come del rapporto con i teatri e per quanto riguarda il coinvolgimento del pubblico, ma questa evoluzione perché sia portata a buon fine deve comunque svolgersi nel rispetto delle motivazioni e delle linee guida che lo resero e lo rendono necessario. E dico necessario non vantaggioso per alcuni speculatori che potrebbero a questo punto, se tanto lo desiderano, spremersi un po’ più le meningi e tirar fuori un’idea dal loro sacco e non tuffarsi a pesce su quelle preparate dagli altri. L’atto unico nasce come monologo interiore nel momento in cui morì il dramma borghese ed adesso, nell’era digitale, non ha più senso il discorso che comportava, adesso è il corto che riassume la vocazione della nostra società e bisogna approfondirne le ragioni non limitarci a sfruttarne la forma».
C’è relazione tra un corto teatrale e un cortometraggio?
M.C.: «A livello di “genere” c’è assoluto parallelismo anche se il cinema è un’industria che al cortometraggio ha riservato un settore in qualche modo relegante, mentre il corto è un fatto teatrale tout court destinato a influenzare e cambiare l’intero teatro contemporaneo per percezione del prodotto socialmente più adeguato, oltre che per le necessità drammaturgiche ed interpretative che comporta».
Durante il festival, un ruolo fondamentale lo ricopre anche il pubblico, partecipando attivamente come giudice delle esibizioni teatrali. Secondo te si può parlare ancora di spettatore?
M.C.: «Se lo consideriamo come spettatore ecco che lo incaselliamo in un ruolo. Ma la stessa persona che a teatro è spettatore, oggi, domani è cliente al supermercato, od utente di un sistema informatico, oppure votante di un partito o tifoso di una squadra. Queste divisioni vanno fatte smarrire. Il pubblico in virtù di una responsabilità diretta e non mediata sui destini delle compagnie, attraverso il voto, e soprattutto di un approccio critico rispetto ai suoi gusti (dovendo dirci non solo cosa è piaciuto ma anche perché: se come regia, come testo od interpretazione) esercita al contempo la funzione democratica del votante, è certamente tifoso degli artisti che supporta o conosce ed è utente collegato ad una rete fatta di testi e idee con il concetto allargato (wide) di tutto il teatro in generale. Spero che sparisca la definizione di pubblico come quella di utente e che si costruisca una società che imponga a tutti di tornare ad essere persone e non solo figuranti in una macchietta pubblicitaria tanto irreale quanto patetica».
Si parla spesso di nuove drammaturgie teatrali. La scena cambia veste, cambia linguaggio, cambia forma, si sperimenta sempre di più. Siamo di fronte a un nuovo modo di “fare teatro”?
M.C.: «Si siamo di fronte ad un nuovo modo di far teatro sia per metodi produttivi che per contenuti estetici. Non è un caso che sempre negli anni 90 mentre io inventavo i Corti, Lehman preconizzava il postdrammatico (titolo del suo saggio) che definisce la frammentazione della percezione dell’uomo contemporaneo del messaggio narrativo unico. Il corto interpreta la velocità delle comunicazioni di oggi, la rapidità sentimentale ed emotiva, la deflagrante compattezza del tempo reale, velocità che Peter Stein definiva “Luciferina” riproponendoci ancora (e per le ultime volte nella storia del teatro) le sue maratone teatrali tanto sfinenti quanto economicamente disastrose. E’ finito quel tempo perché è finita quella percezione, perché non v’è più quel tipo di società né quel tipo di dinamica sociale. Il corto teatrale interpreta questi fenomeni e li traduce in scena ed è la risposta teatrale (l’unica) più efficace dinanzi a questi cambiamenti ed è per questo che cresce esponenzialmente. Io mi limito a rallegrarmene non senza legittimo orgoglio, ma anche a vigilare instancabilmente perché proprio a questi fini sia asservito, perché compia il suo percorso come l’ho individuato io sia teatralmente che socialmente».
Nel 2013 hai scritto un libro intitolato “Il Teatro Contemporaneo” edito da Ediesse. Che cos’è per te la contemporaneità?
M.C.: «Contemporaneo è ciò che interpreta le esigenze della società in quel dato momento, sia per contenuti sia tecnicamente attraverso le variazioni o gli arricchimenti della macchina scenica o anche solo della concezione di spazio scenico, e che quindi sia capace di incidere in chi lo vede in senso attivo rispetto all’insieme delle funzioni che lo stesso ricopre nella società (medico, elettore, padre, devoto ecc…)».
Paolo Pitotti