«Il Teatro vuole l’attore vivo, e che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dalla ostilità, degli uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori».
-Silvio D’amico-
Tutto è possibile a teatro, anche che un attore ti tocchi lasciandoti sul tuo volto la sua lacrima. Sensazioni forti che toccano lo spirito di ogni spettatore, quelle che sono stati capaci di creare e portare in scena Frediano Properzi e Michela Francescangeli autori e registi dello spettacolo “Labirinto” (percorso nelle passioni) prodotto dalla compagnia teatrale “L’Ombelicolo”al Teatro Lo spazio di Roma dal 21 aprile al 3 maggio 2015.
Entrando nello spazio teatrale ci si trova subito persi nel buio del labirinto. La prima impressione che si ha è di smarrimento, poi, l’istinto ci fa muovere, spinti dalla sovrapposizioni di voci, suoni, rumori e musica che ci entrano dentro e ci invitano a scegliere la storia con cui iniziare il nostro viaggio. Gli undici monologhi non hanno un inizio, una successione cronologica, non ci troviamo davanti al solito spettacolo ma immersi in una nuova forma drammaturgica che sovrasta lo spettatore, lo porta “dentro” alla rappresentazione, relegandolo ad essere ascoltatore e nello stesso momento interprete, perché in assenza di esso lo spettacolo non può esistere.
Un rapporto peripatetico con l’azione teatrale, dove si è liberi di scegliere quale via prendere o quale storia ascoltare. Lo spettatore può tornare indietro per riascoltare la storia, sviluppando un tempo proprio, svincolato dal tempo definito della narrazione.
L’atto diegetico viene frantumato, deformato, rotto, non ci sono poltroncine nè una visione frontale dello spettacolo ma ci troviamo incasellati nel dedalo, in uno spazio sensibile dove il nostro corpo, la nostra anima, vagabondando di storia in storia, di passione in passione, si mette in relazione e si confronta con ciò che viene rappresentato e detto.
“Labirinto” gioca molto sulle dinamiche di feedback che ogni personaggio intrattiene con lo spettatore, si cerca lo sguardo, l’attenzione, l’autenticità è nel ciò che accade, nella relazione che si istaura tra attore e pubblico che si lascia immedesimare.
Il performer che si racconta, si mette a nudo, mostrando la propria fragilità davanti e in stretto contatto, creando un rapporto simbiotico con chi l’osserva. Si avvertono i tremori di un uomo che è alla ricerca del suo amore, si percepisce la rabbia e il dolore di una ragazza succube dell’anoressia che vuole assomigliare a barbie, altri due passi e siamo dentro al racconto di uno scrittore che ha perduto l’ispirazione, ci si volta, e in un altro angolo buio si è catturati dalle parole di uno scenografo che tempera ripetutamente e nervosamente delle matite mentre aspetta da anni la lettera del padre.
Un’esperienza sinestetica totale, dove chi guarda e fa esperienza ha l’impressione anche di essere guardato, restando inerme sulla soglia che separa le nicchie in cui troviamo nascosti i protagonisti dell’opera-evento. Il ruolo dell’osservatore è centrale, l’esperienza non rimane tradotta solo “nel vedere” ma anche “nell’interagire” entrando sempre di più in stretto contatto con i personaggi che ci narrano il loro vissuto, rimanendo introspettivamente toccati.
“La passione tinge dei propri colori tutto ciò che tocca” scriveva Baltasar Graciàn. Questa frase ripetuta nel finale dagli attori, in una dissolvenza di voci, ci fa sentire più forti, più sicuri di noi stessi e usciamo dal labirinto trasformati e consapevoli di poter rompere ogni ragnatela dove a volte ci si ritrova intrappolati.
Paolo Pitotti